Mar 25

Il mese di Marzo viene definito pazzerello perché lo si associa alle condizioni meteorologiche estremamente variabili.
In antichità, però, si sarebbe potuto utilizzare lo stesso termine per descrivere la stravaganza degli usi e dei costumi delle feste romane nel primo mese del calendario romano, dedicato in larga parte al dio Marte.
Roma, nella sua millenaria storia, fu crocevia di popoli e gradualmente assorbì credenze e festività religiose, provenienti non soltanto dalle regioni italiche direttamente confinanti.

5 Marzo - Navigium Isidi

La festa in onore alla dea Iside si svolgeva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera: leggermente in anticipo rispetto alla Pasqua cattolica.
La statua della dea sfilava al di sopra di un carro navale per celebrare la resurrezione del suo sposo, Osiride. Venivano svolte delle processioni in maschera ed è probabile che il Carnevale, secondo alcune ipotesi, ne abbia preso spunto nei secoli a venire.
Dopo i decreti che proibirono ogni culto pagano la festa fu suddivisa in due parti: la prima riguardava la resurrezione di Osiride
e si legò a quella di Cristo, confluendo nella Pasqua, la seconda legata ai festeggiamenti più dissoluti sarebbe stata anteposta al periodo di Quaresima.

 

 

14 Marzo - Mamuralia

 Il nome proviene da Mamurio Veturio, il quale fu incaricato da Numa Pompilio di costruire undici scudi identici all’Ancile (il leggendario scudo che cadde dal cielo il primo giorno di marzo per volere di Marte e per preannunciare il futuro glorioso di Roma e la sua invincibilità). Mamurio fabbricò gli altri scudi per confondere chi avrebbe tentato di rubare il vero Ancile: ma la sua opera attirò la sfortuna sulla città ed egli venne cacciato via.
Fu per questo motivo che durante le celebrazioni un uomo conduceva la processione e poi veniva cacciato a bastonate dai concittadini, che lo sbeffeggiavano chiamandolo “
Mamurio”.
L’interpretazione che è stata fornita a proposito di questo rituale è quella dell’utilizzo di un capro espiatorio che si sarebbe addossato tutte le influenze negative per scacciarle dalla comunità e dare il benvenuto all’anno nuovo.

 

15 Marzo - Anna Perenna

La festa veniva celebrata nelle Idi in onore di Anna Perenna, un’antica divinità ritenuta la personificazione femminile dell'anno e del suo perpetuo ritorno: tra i romani, a supporto di questa ipotesi, si ricollega l'augurio di annare perannareque commode, ovvero “passare un buon anno dall'inizio alla fine”.
Il culto si svolgeva in un bosco, nella zona dei Monti Parioli, dove furono rinvenute delle
defixiones (maledizioni) in piombo ed alcune figure antropomorfe inserite a testa in giù in contenitori plumbei, che suggeriscono un nesso fra la dea e la magia.
La processione aveva lo scopo di ringraziare la dea per aver sfamato il popolo.
A questa seguiva una scampagnata con canti e giochi, che ricorda la nostra Pasquetta.

 

 

17 Marzo - Itur ad Argeos

Il 16 ed il 17 marzo si svolgeva a Roma una processione che coinvolgeva le Vestali, i Pontefici, i magistrati e tutti i membri della comunità.
La processione cominciava dal Celio e si concludeva sul
Palatium, faceva tappa presso i ventisette sacelli degli Argei (Argeorum sacraria) distribuiti nei vari rioni, dove i sacerdoti dislocavano altrettanti fantocci di paglia intrecciati in forma di uomini.
I simulacri degli Argei rimanevano nei sacelli per due mesi, fino al 14 maggio, quando un’analoga processione si concludeva con un curioso rituale in cui le Vestali gettavano nel Tevere dal ponte Sublicio i ventisette fantocci fatti di giunchi, con mani e piedi legati.
Le interpretazioni delle processioni e del rituale sono molteplici.
La gettata dei giunchi probabilmente fa riferimento al detto
sexagenarios de ponte, ovvero “si gettino i vecchi dal ponte”, interpretata come l’esclusione degli anziani dal diritto di voto.
La cerimonia affonda le sue radici nell’antichità e forse, originariamente, aveva anche lo scopo di invocare la pioggia dal cielo. La processione avrebbe rappresentato l'entrata dello spirito della vegetazione al principio dell'anno.

22 Marzo - 24 Marzo - Arbor Intrat - Dies Sanguinis

Le celebrazioni iniziavano il 15 marzo con la Canna intrat, una processione che terminava con l’arrivo al tempio di Cibele sul Palatino.
Venivano portati dei fusti di canne allo scopo di commemorare l'esposizione di Attis bambino in un canneto.
Il 22 marzo era la volta dell’
Arbor intrat, una processione che celebrava la morte di Attis: si tagliava un albero di pino (simbolo del dio), lo si fasciava alla base con delle bende di lana rossa e poi lo si decorava di viole e strumenti musicali e sulla sua sommità si ponevano le effigi del dio. L'albero veniva portato dai dendrofori fino al tempio di Cibele, dove avveniva la commemorazione funebre di Attis.
Il 24 marzo era, infine, il
Dies Sanguinis e si tenevano le cerimonie funebri in onore di Attis.
Il gran sacerdote si tagliava le carni con dei cocci e si lacerava la pelle con pugnali per spargere sull'albero-sacro il sangue fuoriuscito, per commemorare il sangue versato dal dio da cui nacquero le viole.
Il gesto veniva successivamente imitato dagli altri sacerdoti e dagli uomini che vi prendevano parte: cominciava poi una danza frenetica e si sguainavano le spade per ferirsi.
Il pino decorato veniva chiuso nel sotterraneo del tempio, da cui sarebbe stato rimosso l'anno successivo. La notte era poi passata nella veglia.

 

Feb 18

Theáomai!
Una parola che sembra un insulto, una maledizione, ma che in realtà è l'antico verbo greco dal significato di «
guardare, essere spettatore».
Si tratta, quindi della parola usata per indicare il teatro nel mondo antico. In realtà la parola greca indicava, oltre che l’edificio per le rappresentazioni, anche quello per assemblee e orazioni.


IL TEATRO GRECO

Il teatro nel mondo greco fu un luogo di apprendimento per il cittadino, le messe in scena narravano le gesta mitiche degli eroi assoggettati al volere degli dei.
La tragedia riusciva ad evocare un tripudio di emozioni nello spettatore ed era incentrata sul piano etico e morale, la commedia invece veniva messa in scena per fare ironia su questioni politiche e, col passare dei secoli, quotidiane.
A partire dal V secolo a.C. la teatralità aprì le porte ad un pubblico di donne, bambini e schiavi: una novità non da poco visto che questi erano solitamente relegati a ruoli marginali della società.
I Greci in effetti utilizzarono il teatro come elemento discriminante nei confronti dei barbari, poiché gli stranieri non avrebbero avuto alcun interesse né avrebbero compreso in alcun modo la sacralità delle scene riprodotte.

IL TEATRO ROMANO

I primi cambi sostanziali avvennero nel teatro latino e poi romano.
Tito Livio racconta che i primi spettacoli furono sporadici, poiché itineranti e messi in scena in spazi preesistenti. Qualche volta veniva costruita una struttura apposita in legno.
Si deve ai Romani l’introduzione del genere satirico al quale furono accostate le danze e la musica.
Le commedie e le tragedie prendevano il nome di
fabula palliata per i Greci e fabula togata o praetexta per i Romani, entrambe le denominazioni si ispiravano ai mantelli indossati dagli attori in scena. 
Dal periodo imperiale il teatro mutò ulteriormente e divenne un tramite tra il popolo e l’imperatore con la pura funzione di intrattenimento.
Il teatro romano fu aspramente criticato, perché spezzò i canoni di raffinatezza e sacralità ereditati dai greci convertiti in toni popolari e
villani, ricorrendo volentieri alla volgarità e ai doppi sensi pur di intrattenere i ceti meno abbienti.

L’architettura del teatro romano, derivata da quella greca, apporta tre principali novità: è fondata su una fitta rete di murature radiali e concentriche; è costruita in piano e non su un declivio naturale come quello greco; ha una forma chiusa con possibile copertura di un velarium.
Le parti essenziali del teatro in pietra erano la
scaena, l'orchestra, la cavea (sedili), i vomitoria (entrate laterali). L’orchestra, nell’edificio greco, era destinata al coro, ma per i romani passa in secondo piano: i cori intervenivano direttamente sul palcoscenico. Inoltre a differenza dei Greci i Romani avevano il sipario. 

Riguardo l’accesso al teatro, com’è noto nel Colosseo, si accedeva gratuitamente tramite delle arcate assegnate in base al ceto sociale.

Il permesso d’accesso era garantito da una tessera, ovvero una tavoletta d’osso con segni incisi, necessaria per indirizzare ciascuno spettatore verso i settori assegnati. 


I posti a sedere all’interno del teatro era attributi in base al censo: in prima fila i senatori sedevano su morbidi cuscini; i cavalieri potevano sedere nelle retrostanti quattordici file; le donne e il resto del popolo sedeva ancora più in alto; le ultime file erano destinate agli schiavi.


IL TEATRO DI CATANIA

Le architetture che contraddistinguono il teatro romano si riscontrano anche in quello catanese.
Fu edificato nel II secolo d.C. in pietra lavica, materiale da costruzione che per Catania è quasi un marchio di fabbrica nelle architetture. La scelta di utilizzare questa pietra è esclusivamente da ricercare nella facilità di reperimento della stessa (i Romani, secondo i dettami di Vitruvio, preferivano costruire con materiali locali per ammortizzare i costi di trasporto).
Tale edificio, affiancato peraltro da un
odéon («costruzione destinata a gare musicali»), fu costruito al di sopra di una struttura di età greca, diversamente interpretata dagli studiosi: alcuni ipotizzano fosse l’antico teatro, altri che si trattasse dell’antica cinta muraria di Catania. È certo che i blocchi di pietra fossero destinati ad una specifica e rilevante struttura grazie alla incisione KAT su questi.
Riguardo la presenza delle acque del fiume Amenano (di cui vi abbiamo parlato qui), soprattutto nell’area dell’orchestra, suscita spesso la curiosità dei visitatori: non ha nulla a che vedere con eventuali spettacoli navali per i quali non vi sarebbe stato lo spazio necessario, ma è dovuto all’abbassamento di livello del terreno a causa di eruzioni e terremoti.
Di certo questo contribuisce a rendere ancor più magico un luogo che d
i per sé è già ricco di fascino.  

Feb 12

La Sicilia, posta al centro del Mediterraneo, è stata anticamente un crocevia di varie culture e civiltà. Tra i periodi di maggiore splendore vissuti dall’isola ricordiamo quello bizantino caratterizzato da una durata di quasi tre secoli.

Nel 535 d.C. il generale Belisario, al servizio dell’imperatore Giustiniano, sbarcato nelle coste catanesi in breve tempo conquistò la Sicilia intera che, da quel momento, entrò a far parte dell’Impero d’Oriente. Con la sottrazione delle diocesi siciliane alla giurisdizione di Roma per essere annesse al patriarcato di Costantinopoli, l’isola venne raggiunta da moltissimi monaci Basiliani, così definiti da San Basilio il fondatore dell’ordine. L’arrivo dei monaci nel territorio siciliano darà avvio all’edificazione di moltissime cappelle caratterizzate da una costruzione particolarmente geometrica e da forme tipicamente cubiche. Queste cappelle, diffuse per lo più nella parte orientale della Sicilia, vengono indicate con l’appellativo di “cube”, un termine caratterizzato da un’origine misteriosa che è stata oggetto di studio. Secondo alcuni studiosi deriverebbe dal latino cupa (botte) e cupula (botticella), secondo altri dall’arabo kubbah (deposito), per altri ancora deriverebbe dalle particolari forme strutturali dell’edificio. 

Oggi, le testimonianze più importanti conservatesi sono la cuba di Santa Domenica situata a Castiglione di Sicilia in provincia di Catania e la cuba della Santissima Trinità di Delia a Castelvetrano in provincia di Trapani.

L’edificio di Castiglione di Sicilia, dedicato a Santa Domenica è considerata la più importante cuba presente in Sicilia. Difatti, nel 1909, per le sue straordinarie dimensioni, per la sua origine storica e per la sua unicità tipologica le è stato riconosciuto lo status di monumento nazionale da parte delle istituzioni e degli enti amministrativi locali, a seguito della relazione effettuata dalla Regia Soprintendenza di Siracusa.

 

La cuba oggi appare come una cappella rurale posta nelle fertili campagne di Castiglione di Sicilia, non troppo distante dal fiume Alcantara che bagna e attraversa il territorio. I molteplici studi effettuati sull’edificio attribuiscono una datazione compresa tra il VII e il IX secolo d.C., visti gli evidenti richiami all’architettura religiosa bizantina. Piuttosto vari risultano essere i materiali da costruzione utilizzati per l’edificazione della chiesa, tra i quali non mancano rocce calcaree e blocchi di pietra lavica. Tuttavia, oggi, mentre la parte esterna della struttura appare ben conservata (nonostante la scarsa attenzione che le è stata attribuita negli anni passati) l’interno dell’edificio, un tempo decorato da splendidi affreschi bizantini, si presenta spoglio e privo di ornamenti.
           
Come detto, la peculiarità dell’edificio consiste propriamente nelle forme rigidamente geometriche e cubiche. La chiesa, infatti, si presenta a croce greca con pianta quadrata, dotata di una cupola e di un’abside semicircolare rivolto ad oriente, come da tradizione bizantina. Si tratta, infatti, di una struttura che sembrerebbe richiamare la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, tradizionale esempio di costruzione costantinopolitana per eccellenza.

                      

Chiesa di Santa Sofia ad Istanbul (wikipedia)

 

La facciata composta da due ordini è tripartita, con un corpo centrale di dimensioni maggiori affiancato dalle parti laterali decisamente più basse e chiuse a spiovente. Al di sopra del grande portale d’accesso alla cappella è presente una bifora, ovvero un’apertura, che secondo la tradizione avrebbe consentito, durante la veglia pasquale, l’ingresso nell’edificio di

fasci di luce emanati dalla luna piena. Questi, infatti, illuminando direttamente l’abside ed il resto della struttura interna dell’edificio, avrebbero dato inizio alla celebrazione della Santa Pasqua.

Negli ultimi anni a suscitare particolare attenzione è stato l’ambiente interno della cappella, in quanto caratterizzato da un corpo cubico centrale racchiuso da una volta che sembrerebbe ispirarsi agli edifici architettonici di fattura islamica. Se tale ipotesi venisse in qualche modo confermata, l’edificio andrebbe sottoposto ad una nuova collocazione temporale e, dunque, inserito tra l’VIII e il X secolo, in un periodo caratterizzato dalla fine della dominazione bizantina in Sicilia e l’inizio della dominazione islamica. La struttura, in questo caso, potrebbe incarnare i caratteri tipologici e culturali appartenenti ad entrambe le culture che influenzarono l’isola nell’antichità; da una parte le cupole con caratteristiche arabeggianti e dall’altra bifore, trifore e forme strutturali di chiaro stile bizantino-orientale.


Interni della Cuba di Santa Domenica (wikipedia)

Recentemente la struttura e l’intero territorio circostante sono stati sottoposti ad una serie di restauri che hanno consentito il rinvenimento di alcuni scheletri di datazione ancora incerta che farebbero ipotizzare la presenza di un’area destinata a sepolture, attigua alla stessa struttura religiosa. Essa apparterrebbe ad una piccola comunità stanziata nel territorio, verosimilmente riconducibile gli stessi monaci Basiliani che raggiunsero l’isola nel corso del periodo bizantino.

L’esempio della cuba di Castiglione, seppur il più importante e il meglio conservato nell’isola, non è il solo. Sono numerose le altre testimonianze di queste particolari strutture diffuse in gran parte della Sicilia. Tra queste se ne segnalano tracce nei territori di Randazzo, Santa Venerina, nella Cappella Bonajuto di Catania e nel territorio del siracusano. 

Voi avete mai visto queste particolari strutture sparse per la Sicilia? Conoscevate la loro storia?

Feb 05

La festa di Sant’Agata è tra le più importanti feste religiose al mondo. Non tutti i catanesi sanno che all’interno della chiesa di Sant’Agata la Vetere è custodito, quello che secondo la tradizione, fu il sepolcro che ospitò il corpo della Santa prima che venisse trafugato dal generale bizantino Giorgio Maniace e portato a Costantinopoli. Esso fu, poi, incorporato all’altare della chiesa.

Il sarcofago è costituito da una cassa, in marmo bianco a grandi cristalli di origine egea, decorata a bassorilievo, e da un coperchio a timpano in calcare sedimentario compatto di origine siracusana.

 

 Sarcofago di Sant’Agata. Chiesa di Sant’Agata la Vetere. Foto da beweb.chiesacattolica.it

 

 La cassa, datata tra la fine del II e l’inizio del III secolo, sembrerebbe essere stata realizzata da un’officina locale, che nella scelta dell’apparato iconografico si ispirò a prototipi attici.

Le scene del bassorilievo della cassa mostrano dei chiari riferimenti all’iconografia pagana. Infatti, sul lato principale del sarcofago è rappresentata una scena di caccia, nello specifico la caccia al cinghiale calidonio. Tale scena presenta delle importanti tracce di scalpello, che ne hanno rovinato la rappresentazione, molto probabilmente a seguito del reimpiego del sarcofago come sepoltura della santa. 

 

 

Il mito racconta che Afrodite, dea della bellezza, adirata nei confronti di Oineo, re di Calidone, aveva inviato un enorme cinghiale in città scatenando il panico. Il figlio di Oineo, Meleagro, la bella Atalanta, giovane e coraggiosa guerriera, e gli zii di Meleagro organizzarono una spedizione per uccidere il cinghiale. Meleagro riuscí ad uccidere il cinghiale, che precedentemente era stato ferito da Atalanta, e volle regalare le spoglie dell’animale come trofeo alla fanciulla. I due zii si infuriarono perché volevano tenere per loro le spoglie, di conseguenza Meleagro, in un impeto di rabbia, li uccise. La madre di Meleagro, vedendo i suoi fratelli morti, presa dalla rabbia nei confronti di suo figlio, fece bruciare il tizzone che teneva in vita Meleagro, e che lei stessa aveva custodito fino ad allora, e così Meleagro morì.

 

Vaso Francois, scena di caccia al cinghiale calidionio. Louvre (Foto da wikimedia.org)

 

Sul lato posteriore della cassa, in ottimo stato di conservazione, sono raffigurati due grifi in posizione araldica ed un candelabro, il cui significato, nella risemantizzazione cristiana, è di tipo escatologico.

 

 

Il coperchio del sarcofago, certamente più tardo, presenta invece un’iconografia prettamente cristiana. Nelle due falde è rappresentata una croce astile, che si ricollega al tipo dell’imago crucis, dove la croce stessa rappresenta il sacrificio e di conseguenza Cristo stesso. Essa comincia ad affermarsi a partire dal IV secolo.
Nel timpano del lato destro, invece, sono rappresentati Cristo imberbe con nimbo crucigero reggente in mano il Vangelo, e una figura femminile nimbata e velata che regge con una mano la croce e l’altra poggiata sul petto. Si tratta verosimilmente di S. Agata, di cui oggi viene celebrata la festa, particolarmente sentita nella città di Catania.

Gen 15

La pasta, per gli italiani e non solo, rientra tra i pochi alimenti ai quali difficilmente riusciremmo a rinunciare. 

Un fitto alone di mistero si cela attorno alle origini di questo cibo.

Nell’antichità era sicuramente conosciuta nella sua forma primordiale dai Greci, ma dopo la caduta dell’Impero Romano se ne persero le tracce fino a quando non fu riscoperta da Arabi e Cinesi.

Una prima distinzione va fatta, però, fra pasta fresca e pasta secca: la prima si ottiene con l’impasto di farina, acqua o uova e doveva essere consumata subito dopo la sua preparazione. 

Una prima ipotesi, più o meno accreditata, è che la pasta nel senso moderno del termine sia stata originariamente creata dai Cinesi e si diffuse in Italia ed in Europa dopo il ritorno di Marco Polo dalla corte di Gengis Khan.
Tuttavia, come si è già detto in precedenza, pare che le origini della pasta siano, in realtà, ancor più antiche e probabilmente circoscritte all’area mediterranea: nei primi millenni a.C. forni primitivi o semplici pietre roventi servivano per la cottura di pane e focacce, i primi preparati dal grano. 

Le prime testimonianze scritte provengono da Aristofane (V secolo a.C.) che, in una delle sue commedie, descrive un tipo di pasta molto simile ai ravioli. 

Un altro esempio in tal senso, stavolta in ambito archeologico, proviene da una tomba di Cerveteri del periodo etrusco: vengono illustrati alcuni attrezzi da cucina utili alla produzione e preparazione dei suddetti “ravioli”. 

Con l’avvento del mondo romano le testimonianze diventano sempre più numerose: Orazio e Terenzio menzionano la pasta nei loro scritti (I secolo a.C.) e Apicio (I secolo d.C.), nel suo De re Coquinaria, introduce il termine lagane. Si trattava di strisce di pasta di spessore variabile che potevano essere farcite con carne cotta, ecco perché esse vengono definite le antenate delle attuali lasagne.

 

 

Mosaico raffigurante un giovane che serve laganum. Da https://www.researchgate.net/

 

Dopo la caduta dell’Impero Romano le testimonianze sulla produzione della pasta vengono meno: ciò probabilmente fu dovuto ai secoli turbolenti che seguirono il 476. L’economia e l’agricoltura entrarono in crisi, fu raccolto meno grano e di conseguenza fu prodotta meno pasta fresca.

Nel IX secolo la produzione ricominciò in Africa settentrionale. Si diffuse per la prima volta la pasta secca: contrariamente a quella fresca, questa veniva esposta al calore per eliminare l’acqua in eccesso e al contempo favoriva una maggiore e migliore conservazione nel tempo.

Le prima testimonianze scritte di pasta essiccata in Italia risalgono al XII secolo ad opera del geografo arabo al-Idrisi, che lavorò presso la corte del re Ruggero II di Sicilia. 

Nel Libro di Ruggero, una raccolta di carte geografiche pubblicato nel 1154, egli menziona un paesino vicino Palermo di nome Trabia dove abbondavano i mulini per la fabbricazione di un tipo di pasta a fili che veniva modellata a mano e che prese il nome di vermiculi

Idrisi la chiamò nei suoi scritti itriyya (oggi questo termine si conserva nel termine dialettale tria, ovvero un tipo di pasta tuttora prodotta nell’Italia meridionale), che aveva il significato di “pasta secca stirata e filiforme”. 

Dopo la pratica dell’essiccazione, questo tipo di pasta veniva caricata in grandi quantità sulle navi e circolò in tutta l’area mediterranea cristiana e musulmana.

Alla fine del XII secolo, i vermiculi siciliani cominciarono gradualmente a diffondersi prima in Campania tra Amalfi e Napoli e successivamente, tra XIII e XIV secolo, a Salerno.

Tra il XII e il XIII secolo la pasta secca veniva consumata per lo più come cibo di riempimento quasi esclusivamente dai ceti popolari (in particolare contadini) negli stessi luoghi nella quale veniva prodotta, al contrario per i ceti più elevati il consumo era esclusivamente a base di pasta fresca e deperibile.

Nel tardo medioevo la diffusione dei vermiculi avvenne anche a Genova: la stessa tipologia di pasta aveva assunto il nome di fideli oppure di fidelini e fu proprio da tale città che cominciarono i traffici marittimi che portarono alla diffusione dei suddetti in tutta l’Italia centro-settentrionale. I mercanti genovesi avevano ottenuto a loro volta i vermiculi dagli stretti contatti col meridione ed in particolare con la Sicilia.   

In seguito ai commerci genovesi anche in Provenza e in Inghilterra la pasta ebbe la sua diffusione e, addirittura, l’Inghilterra fu l’unico paese insieme all’Italia ad avere nei libri di cucina delle ricette di pasta (sebbene, va precisato, fino al XV secolo c’era molta confusione circa il termine pasta, e non si sapeva bene a quale variante si riferisse: dolce, salata, lessa, fritta, ecc.).

                        Manifattura della pasta. Da Tacuinum Sanitatis - Wikimedia Commons

Il Maestro Martino da Como, il più importante cuoco europeo del XV secolo, nel suo De Arte Coquinaria (caposaldo della cucina gastronomica italiana a cavallo tra il periodo medievale e rinascimentale), è il primo a descrivere minuziosamente il processo di produzione dei vermicelli

Fu proprio nel XV secolo che cominciarono a diffondersi i primi grandi pastifici artigianali,  dapprima nel napoletano a Gragnano. In particolare, in quegli anni, le classi popolari avevano una gran necessità di scorte alimentari durature e per questo motivo si perfezionò su ampia scala la produzione della pasta secca, ulteriormente ottimizzata dall’invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta.

L’ultima grande rivoluzione, che si lega strettamente al presente, avvenne nel XVII secolo. Ancora una volta protagonista fu l’area del napoletano, stavolta sotto il dominio spagnolo. Furono introdotti sulle tavole per la prima volta i pomodori, esportati dal Nuovo Mondo. Seppur guardati con sospetto, poiché si pensava che i frutti fossero velenosi, si diffuse quello che oggi possiamo definire un classico della cucina nostrana: gli spaghetti (che assunsero il nome in via definitiva) al pomodoro, per l’appunto.

L’area napoletana incrementò ancora una volta la produzione, superando nelle vendite la Sicilia grazie ai prezzi molto ribassati e il piatto si diffuse in un primo momento tra i ceti popolari: gli spaghetti venivano mangiati con le mani entro un cartoccio e venivano venduti per le strade da ambulanti che li portavano in  grandi pentole fumanti, stipate al di sopra di alcuni carretti.

 

Saverio della Gatta - Mangiamaccheroni. Da https://www.lasicilia.it

Nel XVIII secolo il piatto si diffuse per ultimo anche sulle tavole dei nobili, ma solo dopo l’invenzione (o meglio, il perfezionamento) di uno strumento indispensabile: la forchetta. 

Quest’ultima era stata inventata qualche secolo prima ma era inizialmente composta da due “denti”. Ad un ciambellano alla corte del Regno di Napoli, Gennaro Spadaccini, si deve l’incremento a quattro, così per come la conosciamo ad oggi. 

 

Insomma tutto ciò che oggi fa parte del nostro quotidiano ha spesso delle radici molto più antiche, che ci legano peraltro a diversi popoli e tradizioni. Conoscerle e farla conoscere è, e sempre sarà, la nostra missione.

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