Il giocattolo è l’arma più potente che ciascun bambino ha sempre avuto a disposizione non solo per impegnare le proprie giornate, ma anche per richiamare l’attenzione di adulti e bambini e soddisfare un bisogno di affetto e interazione con gli altri.
Ma quali oggetti hanno costituito un ruolo tanto importante nel mondo antico?
ANTICO EGITTO
Nell’antico Egitto i bambini si divertivano giocando con palle d’argilla, mentre le bambine possedevano spesso delle trottole dello stesso materiale o delle bambole di legno i cui capelli erano fatti con perline di argilla.
Bambola in legno e Palle d’argilla (da www.aton-ra.com)
ANTICA GRECIA
Il bambino greco era solito giocare con i cerchi, gli antenati dei nostri Hula Hoop! Oppure possedeva giocattoli in ceramica realizzati dai resti di argilla destinata alla fabbricazione di recipienti d’uso domestico. Tra questi cavallini e cavalieri. Anche qui le bambine spesso giocavano con le bambole.
Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo (Cratere attico - circa 500-490 aC) (da www.summagallicana.it.)
Cavallini e cavalieri
ANTICA ROMA
Il bambino romano di certo avrà amato giocare “alla guerra”, ma tra i suoi giocattoli comparivano biglie di vetro o astragali (ossicini utilizzati come un dado ma con sole quattro facce) e modellini di carri. E la bambina? Con le bambole naturalmente!
Bambina che gioca con astragali e Bambola di Crepereia (da www.romanoimpero.com)
ANTICA CINA
E in Cina? Di sicuro il giocattolo più diffuso era il liu bo. Di che si trattava? Praticamente il moderno gioco detto Shangai o Mikado.
I VICHINGHI
I piccoli vichinghi dovevano certamente conformare il loro gioco con i climi più rigidi: ecco perché si dedicavano spesso a lanciarsi le palle di neve o al pattinaggio. I pattini erano costituiti da una scarpa in cuoio e una lama in osso, ingegnosi!
Se si trascorreva il tempo dentro casa, però, allora c’era il hneftafl, nient’altro che gli scacchi con le pedine.
Pattini in cuoio e lama d’osso
Tavola da hneftafl proveniente da Trondheim (da tafl.cyningstan.com)
Che dire? I bambini di ieri, oggi e domani in fondo saranno pur sempre bambini e i loro giocattoli, per questo, non potranno mai essere tanto diversi con il passare dei secoli.
Nell’arte paleocristiana le rappresentazioni della Resurrezione risultano meno numerose e diffuse rispetto ad altri episodi della vita di Cristo. Questo fenomeno potrebbe essere giustificato dal mistero stesso della Resurrezione, descritto in modo molto scarno nel racconto evangelico: tre giorni dopo la crocifissione alcune donne si recarono al sepolcro portando unguenti profumati. Giunte lì trovarono la pietra di chiusura della sepoltura rovesciata e un angelo che le attendeva.
Inizialmente la Resurrezione è rappresentata in modo molto semplice e simbolico come nel caso della raffigurazione della croce o dell’agnello.
Simbologia della croce e il monogramma di Cristo
La croce veniva rappresentata in diversi modi, uno dei quali è l'associazione di essa al monogramma di Cristo, il chrismon. La tradizione associa la nascita e la diffusione della rappresentazione della croce alla celebre “visione” o sogno di Costantino durante la Battaglia di Ponte Milvio. Il chrismon, o chi rho, è formato da due grandi lettere greche sovrapposte ovvero alla 'χ' ('chi') e 'ρ' ('rho') – iniziali della parola 'Χριστός' (Cristo).
Spesso il Chrismon è accompagnato dalle due lettere greche 'α' (alfa) e 'ω' (omega), prima e ultima lettera dell’alfabeto greco, in riferimento al celebre passo dell’Apocalisse di Giovanni in cui Cristo dice: «Io sono l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine».
Dettaglio sarcofago di IV dal cimitero di Domitilla sulla via Ardeatina, oggi ai Musei Vaticani.
(Foto da https://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/museo-pio-cristiano/sarcofagi-_a-colonne/sarcofago-con-scene-della-passione-di-cristo.html)
In foto è presente la decorazione di un sarcofago dal cimitero di Domitilla, a rilievo, è incentrata sul tema della Passione e Risurrezione di Cristo. La Resurrezione è rappresentata come come vittoria sulla morte, anche in segno di speranza per il defunto. Al centro della fronte del sarcofago è rappresentata una croce sormontata dal monogramma di Cristo (X e P, chi-rho, iniziali del greco Christós), simbolo della risurrezione (Anàstasis), cui alludono, in basso, anche i due soldati tramortiti.
Simbologia dell'agnello
L’agnello è un altro dei soggetti che sin dalle origini dell’arte cristiana è sempre stato associato alla Pasqua e alla Resurrezione di Cristo. L'origine di questa simbologia è ispirata al racconto del sacrificio di Abramo nell'Antico Testamento.
Sacrificio di Isacco, Caravaggio, Galleria degli Uffizi, Firenze
(Foto da https://www.studiarapido.it/la-storia-di-abramo-e-sacrificio-di-isacco/)
L’agnello è il simbolo del sacrificio della croce e esplica, in modo simbolico, il mistero della Resurrezione. Talvolta è sostituito dall'ariete, animale prediletto per il sacrificio nel culto del vecchio testamento.
La scelta dell'agnello pasquale tra pecore e capre viene interpretata dai Padri della Chiesa orientale come la capacità di redenzione del Cristo che è morto per l’umanità. Secondo la patristica latina, Cristo è nato tra i giusti e i peccatori, tra ebrei e pagani. I Padri della Chiesa vedono nella natura divina di Cristo la perfezione dell'agnello pasquale.
Basilica di San Vitale, Ravenna. I Mosaici bizantini, 546-547.
(Foto da https://monstermovieitalia.com/2019/04/21/medioevo-mostruoso-lagnello/)
Il ciclo di Giona
La rappresentazione del mistero della Resurrezione di Cristo nell’arte paleocristiana non è mai del tutto esplicita. Un chiaro riferimento è dato dalla frequente rappresentazione del Ciclo di Giona all’interno delle catacombe, dove il messaggio della Resurrezione coincideva con la speranza della vita oltre la morte. Il Vangelo di Matteo collega molto chiaramente la storia del profeta raccontata nell’Antico Testamento con la storia di Gesù: "Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra".
Nel libro di Giona viene raccontata la volontà di Dio affinché Giona andasse a predicare a Ninive. Giona, invece, fugge a Tarsis su una nave che è investita da un temporale, quando rivela ai compagni di viaggio il motivo della tempesta, ovvero l’ira di Dio, questi lo gettano in mare, dove un "grande pesce" lo inghiotte. Dal ventre del pesce, dove rimane tre giorni e tre notti, Giona rivolge a Dio un'intensa preghiera, e allora Dio, ordina al pesce di vomitare Giona sulla spiaggia. Dunque Giona, sopravvissuto, va in missione e predica ai niniviti, che gli credono e proclamano un digiuno. Per tale motivo Dio decide di risparmiare la città. L’esegesi cristiana del libro di Giona, pertanto, prende le mosse in origine da una visione cristologica del racconto, che porterà a guardare Giona come un uomo redento e nella conversione di Ninive una prefigurazione della nascita della Chiesa e della sua missione universale.
Giona viene gettato in mare e divorato dalla pistrice, Mosaico, Basilica di Aquileia
(Foto da https://www.beweb.chiesacattolica.it/percorsi/percorso/101/Il+Battistero+nella+storia:+dal+rito+al+luogo/periodi/periodo/1/iconografia/4/Giona)
Giona viene rigettato dalla pistrice, Mosaico, Basilica di Aquileia
(foto da https://www.beweb.chiesacattolica.it/percorsi/percorso/101/Il+Battistero+nella+storia:+dal+rito+al+luogo/periodi/periodo/1/iconografia/4/Giona)
Il mese di Marzo viene definito pazzerello perché lo si associa alle condizioni meteorologiche estremamente variabili.
In antichità, però, si sarebbe potuto utilizzare lo stesso termine per descrivere la stravaganza degli usi e dei costumi delle feste romane nel primo mese del calendario romano, dedicato in larga parte al dio Marte.
Roma, nella sua millenaria storia, fu crocevia di popoli e gradualmente assorbì credenze e festività religiose, provenienti non soltanto dalle regioni italiche direttamente confinanti.
5 Marzo - Navigium Isidi
La festa in onore alla dea Iside si svolgeva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera: leggermente in anticipo rispetto alla Pasqua cattolica.
La statua della dea sfilava al di sopra di un carro navale per celebrare la resurrezione del suo sposo, Osiride. Venivano svolte delle processioni in maschera ed è probabile che il Carnevale, secondo alcune ipotesi, ne abbia preso spunto nei secoli a venire.
Dopo i decreti che proibirono ogni culto pagano la festa fu suddivisa in due parti: la prima riguardava la resurrezione di Osiride e si legò a quella di Cristo, confluendo nella Pasqua, la seconda legata ai festeggiamenti più dissoluti sarebbe stata anteposta al periodo di Quaresima.
14 Marzo - Mamuralia
Il nome proviene da Mamurio Veturio, il quale fu incaricato da Numa Pompilio di costruire undici scudi identici all’Ancile (il leggendario scudo che cadde dal cielo il primo giorno di marzo per volere di Marte e per preannunciare il futuro glorioso di Roma e la sua invincibilità). Mamurio fabbricò gli altri scudi per confondere chi avrebbe tentato di rubare il vero Ancile: ma la sua opera attirò la sfortuna sulla città ed egli venne cacciato via.
Fu per questo motivo che durante le celebrazioni un uomo conduceva la processione e poi veniva cacciato a bastonate dai concittadini, che lo sbeffeggiavano chiamandolo “Mamurio”.
L’interpretazione che è stata fornita a proposito di questo rituale è quella dell’utilizzo di un capro espiatorio che si sarebbe addossato tutte le influenze negative per scacciarle dalla comunità e dare il benvenuto all’anno nuovo.
15 Marzo - Anna Perenna
La festa veniva celebrata nelle Idi in onore di Anna Perenna, un’antica divinità ritenuta la personificazione femminile dell'anno e del suo perpetuo ritorno: tra i romani, a supporto di questa ipotesi, si ricollega l'augurio di annare perannareque commode, ovvero “passare un buon anno dall'inizio alla fine”.
Il culto si svolgeva in un bosco, nella zona dei Monti Parioli, dove furono rinvenute delle defixiones (maledizioni) in piombo ed alcune figure antropomorfe inserite a testa in giù in contenitori plumbei, che suggeriscono un nesso fra la dea e la magia.
La processione aveva lo scopo di ringraziare la dea per aver sfamato il popolo.
A questa seguiva una scampagnata con canti e giochi, che ricorda la nostra Pasquetta.
17 Marzo - Itur ad Argeos
Il 16 ed il 17 marzo si svolgeva a Roma una processione che coinvolgeva le Vestali, i Pontefici, i magistrati e tutti i membri della comunità.
La processione cominciava dal Celio e si concludeva sul Palatium, faceva tappa presso i ventisette sacelli degli Argei (Argeorum sacraria) distribuiti nei vari rioni, dove i sacerdoti dislocavano altrettanti fantocci di paglia intrecciati in forma di uomini.
I simulacri degli Argei rimanevano nei sacelli per due mesi, fino al 14 maggio, quando un’analoga processione si concludeva con un curioso rituale in cui le Vestali gettavano nel Tevere dal ponte Sublicio i ventisette fantocci fatti di giunchi, con mani e piedi legati.
Le interpretazioni delle processioni e del rituale sono molteplici.
La gettata dei giunchi probabilmente fa riferimento al detto sexagenarios de ponte, ovvero “si gettino i vecchi dal ponte”, interpretata come l’esclusione degli anziani dal diritto di voto.
La cerimonia affonda le sue radici nell’antichità e forse, originariamente, aveva anche lo scopo di invocare la pioggia dal cielo. La processione avrebbe rappresentato l'entrata dello spirito della vegetazione al principio dell'anno.
22 Marzo - 24 Marzo - Arbor Intrat - Dies Sanguinis
Le celebrazioni iniziavano il 15 marzo con la Canna intrat, una processione che terminava con l’arrivo al tempio di Cibele sul Palatino.
Venivano portati dei fusti di canne allo scopo di commemorare l'esposizione di Attis bambino in un canneto.
Il 22 marzo era la volta dell’Arbor intrat, una processione che celebrava la morte di Attis: si tagliava un albero di pino (simbolo del dio), lo si fasciava alla base con delle bende di lana rossa e poi lo si decorava di viole e strumenti musicali e sulla sua sommità si ponevano le effigi del dio. L'albero veniva portato dai dendrofori fino al tempio di Cibele, dove avveniva la commemorazione funebre di Attis.
Il 24 marzo era, infine, il Dies Sanguinis e si tenevano le cerimonie funebri in onore di Attis.
Il gran sacerdote si tagliava le carni con dei cocci e si lacerava la pelle con pugnali per spargere sull'albero-sacro il sangue fuoriuscito, per commemorare il sangue versato dal dio da cui nacquero le viole.
Il gesto veniva successivamente imitato dagli altri sacerdoti e dagli uomini che vi prendevano parte: cominciava poi una danza frenetica e si sguainavano le spade per ferirsi.
Il pino decorato veniva chiuso nel sotterraneo del tempio, da cui sarebbe stato rimosso l'anno successivo. La notte era poi passata nella veglia.
Theáomai!
Una parola che sembra un insulto, una maledizione, ma che in realtà è l'antico verbo greco dal significato di «guardare, essere spettatore».
Si tratta, quindi della parola usata per indicare il teatro nel mondo antico. In realtà la parola greca indicava, oltre che l’edificio per le rappresentazioni, anche quello per assemblee e orazioni.
IL TEATRO GRECO
Il teatro nel mondo greco fu un luogo di apprendimento per il cittadino, le messe in scena narravano le gesta mitiche degli eroi assoggettati al volere degli dei.
La tragedia riusciva ad evocare un tripudio di emozioni nello spettatore ed era incentrata sul piano etico e morale, la commedia invece veniva messa in scena per fare ironia su questioni politiche e, col passare dei secoli, quotidiane.
A partire dal V secolo a.C. la teatralità aprì le porte ad un pubblico di donne, bambini e schiavi: una novità non da poco visto che questi erano solitamente relegati a ruoli marginali della società.
I Greci in effetti utilizzarono il teatro come elemento discriminante nei confronti dei barbari, poiché gli stranieri non avrebbero avuto alcun interesse né avrebbero compreso in alcun modo la sacralità delle scene riprodotte.
IL TEATRO ROMANO
I primi cambi sostanziali avvennero nel teatro latino e poi romano.
Tito Livio racconta che i primi spettacoli furono sporadici, poiché itineranti e messi in scena in spazi preesistenti. Qualche volta veniva costruita una struttura apposita in legno.
Si deve ai Romani l’introduzione del genere satirico al quale furono accostate le danze e la musica.
Le commedie e le tragedie prendevano il nome di fabula palliata per i Greci e fabula togata o praetexta per i Romani, entrambe le denominazioni si ispiravano ai mantelli indossati dagli attori in scena.
Dal periodo imperiale il teatro mutò ulteriormente e divenne un tramite tra il popolo e l’imperatore con la pura funzione di intrattenimento.
Il teatro romano fu aspramente criticato, perché spezzò i canoni di raffinatezza e sacralità ereditati dai greci convertiti in toni popolari e villani, ricorrendo volentieri alla volgarità e ai doppi sensi pur di intrattenere i ceti meno abbienti.
L’architettura del teatro romano, derivata da quella greca, apporta tre principali novità: è fondata su una fitta rete di murature radiali e concentriche; è costruita in piano e non su un declivio naturale come quello greco; ha una forma chiusa con possibile copertura di un velarium.
Le parti essenziali del teatro in pietra erano la scaena, l'orchestra, la cavea (sedili), i vomitoria (entrate laterali). L’orchestra, nell’edificio greco, era destinata al coro, ma per i romani passa in secondo piano: i cori intervenivano direttamente sul palcoscenico. Inoltre a differenza dei Greci i Romani avevano il sipario.
Riguardo l’accesso al teatro, com’è noto nel Colosseo, si accedeva gratuitamente tramite delle arcate assegnate in base al ceto sociale.
Il permesso d’accesso era garantito da una tessera, ovvero una tavoletta d’osso con segni incisi, necessaria per indirizzare ciascuno spettatore verso i settori assegnati.
I posti a sedere all’interno del teatro era attributi in base al censo: in prima fila i senatori sedevano su morbidi cuscini; i cavalieri potevano sedere nelle retrostanti quattordici file; le donne e il resto del popolo sedeva ancora più in alto; le ultime file erano destinate agli schiavi.
IL TEATRO DI CATANIA
Le architetture che contraddistinguono il teatro romano si riscontrano anche in quello catanese.
Fu edificato nel II secolo d.C. in pietra lavica, materiale da costruzione che per Catania è quasi un marchio di fabbrica nelle architetture. La scelta di utilizzare questa pietra è esclusivamente da ricercare nella facilità di reperimento della stessa (i Romani, secondo i dettami di Vitruvio, preferivano costruire con materiali locali per ammortizzare i costi di trasporto).
Tale edificio, affiancato peraltro da un odéon («costruzione destinata a gare musicali»), fu costruito al di sopra di una struttura di età greca, diversamente interpretata dagli studiosi: alcuni ipotizzano fosse l’antico teatro, altri che si trattasse dell’antica cinta muraria di Catania. È certo che i blocchi di pietra fossero destinati ad una specifica e rilevante struttura grazie alla incisione KAT su questi.
Riguardo la presenza delle acque del fiume Amenano (di cui vi abbiamo parlato qui), soprattutto nell’area dell’orchestra, suscita spesso la curiosità dei visitatori: non ha nulla a che vedere con eventuali spettacoli navali per i quali non vi sarebbe stato lo spazio necessario, ma è dovuto all’abbassamento di livello del terreno a causa di eruzioni e terremoti.
Di certo questo contribuisce a rendere ancor più magico un luogo che di per sé è già ricco di fascino.
La Sicilia, posta al centro del Mediterraneo, è stata anticamente un crocevia di varie culture e civiltà. Tra i periodi di maggiore splendore vissuti dall’isola ricordiamo quello bizantino caratterizzato da una durata di quasi tre secoli.
Nel 535 d.C. il generale Belisario, al servizio dell’imperatore Giustiniano, sbarcato nelle coste catanesi in breve tempo conquistò la Sicilia intera che, da quel momento, entrò a far parte dell’Impero d’Oriente. Con la sottrazione delle diocesi siciliane alla giurisdizione di Roma per essere annesse al patriarcato di Costantinopoli, l’isola venne raggiunta da moltissimi monaci Basiliani, così definiti da San Basilio il fondatore dell’ordine. L’arrivo dei monaci nel territorio siciliano darà avvio all’edificazione di moltissime cappelle caratterizzate da una costruzione particolarmente geometrica e da forme tipicamente cubiche. Queste cappelle, diffuse per lo più nella parte orientale della Sicilia, vengono indicate con l’appellativo di “cube”, un termine caratterizzato da un’origine misteriosa che è stata oggetto di studio. Secondo alcuni studiosi deriverebbe dal latino cupa (botte) e cupula (botticella), secondo altri dall’arabo kubbah (deposito), per altri ancora deriverebbe dalle particolari forme strutturali dell’edificio.
Oggi, le testimonianze più importanti conservatesi sono la cuba di Santa Domenica situata a Castiglione di Sicilia in provincia di Catania e la cuba della Santissima Trinità di Delia a Castelvetrano in provincia di Trapani.
L’edificio di Castiglione di Sicilia, dedicato a Santa Domenica è considerata la più importante cuba presente in Sicilia. Difatti, nel 1909, per le sue straordinarie dimensioni, per la sua origine storica e per la sua unicità tipologica le è stato riconosciuto lo status di monumento nazionale da parte delle istituzioni e degli enti amministrativi locali, a seguito della relazione effettuata dalla Regia Soprintendenza di Siracusa.
La cuba oggi appare come una cappella rurale posta nelle fertili campagne di Castiglione di Sicilia, non troppo distante dal fiume Alcantara che bagna e attraversa il territorio. I molteplici studi effettuati sull’edificio attribuiscono una datazione compresa tra il VII e il IX secolo d.C., visti gli evidenti richiami all’architettura religiosa bizantina. Piuttosto vari risultano essere i materiali da costruzione utilizzati per l’edificazione della chiesa, tra i quali non mancano rocce calcaree e blocchi di pietra lavica. Tuttavia, oggi, mentre la parte esterna della struttura appare ben conservata (nonostante la scarsa attenzione che le è stata attribuita negli anni passati) l’interno dell’edificio, un tempo decorato da splendidi affreschi bizantini, si presenta spoglio e privo di ornamenti.
Come detto, la peculiarità dell’edificio consiste propriamente nelle forme rigidamente geometriche e cubiche. La chiesa, infatti, si presenta a croce greca con pianta quadrata, dotata di una cupola e di un’abside semicircolare rivolto ad oriente, come da tradizione bizantina. Si tratta, infatti, di una struttura che sembrerebbe richiamare la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, tradizionale esempio di costruzione costantinopolitana per eccellenza.
Chiesa di Santa Sofia ad Istanbul (wikipedia)
La facciata composta da due ordini è tripartita, con un corpo centrale di dimensioni maggiori affiancato dalle parti laterali decisamente più basse e chiuse a spiovente. Al di sopra del grande portale d’accesso alla cappella è presente una bifora, ovvero un’apertura, che secondo la tradizione avrebbe consentito, durante la veglia pasquale, l’ingresso nell’edificio di
fasci di luce emanati dalla luna piena. Questi, infatti, illuminando direttamente l’abside ed il resto della struttura interna dell’edificio, avrebbero dato inizio alla celebrazione della Santa Pasqua.
Negli ultimi anni a suscitare particolare attenzione è stato l’ambiente interno della cappella, in quanto caratterizzato da un corpo cubico centrale racchiuso da una volta che sembrerebbe ispirarsi agli edifici architettonici di fattura islamica. Se tale ipotesi venisse in qualche modo confermata, l’edificio andrebbe sottoposto ad una nuova collocazione temporale e, dunque, inserito tra l’VIII e il X secolo, in un periodo caratterizzato dalla fine della dominazione bizantina in Sicilia e l’inizio della dominazione islamica. La struttura, in questo caso, potrebbe incarnare i caratteri tipologici e culturali appartenenti ad entrambe le culture che influenzarono l’isola nell’antichità; da una parte le cupole con caratteristiche arabeggianti e dall’altra bifore, trifore e forme strutturali di chiaro stile bizantino-orientale.
Interni della Cuba di Santa Domenica (wikipedia)
Recentemente la struttura e l’intero territorio circostante sono stati sottoposti ad una serie di restauri che hanno consentito il rinvenimento di alcuni scheletri di datazione ancora incerta che farebbero ipotizzare la presenza di un’area destinata a sepolture, attigua alla stessa struttura religiosa. Essa apparterrebbe ad una piccola comunità stanziata nel territorio, verosimilmente riconducibile gli stessi monaci Basiliani che raggiunsero l’isola nel corso del periodo bizantino.
L’esempio della cuba di Castiglione, seppur il più importante e il meglio conservato nell’isola, non è il solo. Sono numerose le altre testimonianze di queste particolari strutture diffuse in gran parte della Sicilia. Tra queste se ne segnalano tracce nei territori di Randazzo, Santa Venerina, nella Cappella Bonajuto di Catania e nel territorio del siracusano.
Voi avete mai visto queste particolari strutture sparse per la Sicilia? Conoscevate la loro storia?