La festa di Sant’Agata è tra le più importanti feste religiose al mondo. Non tutti i catanesi sanno che all’interno della chiesa di Sant’Agata la Vetere è custodito, quello che secondo la tradizione, fu il sepolcro che ospitò il corpo della Santa prima che venisse trafugato dal generale bizantino Giorgio Maniace e portato a Costantinopoli. Esso fu, poi, incorporato all’altare della chiesa.
Il sarcofago è costituito da una cassa, in marmo bianco a grandi cristalli di origine egea, decorata a bassorilievo, e da un coperchio a timpano in calcare sedimentario compatto di origine siracusana.
Sarcofago di Sant’Agata. Chiesa di Sant’Agata la Vetere. Foto da beweb.chiesacattolica.it
La cassa, datata tra la fine del II e l’inizio del III secolo, sembrerebbe essere stata realizzata da un’officina locale, che nella scelta dell’apparato iconografico si ispirò a prototipi attici.
Le scene del bassorilievo della cassa mostrano dei chiari riferimenti all’iconografia pagana. Infatti, sul lato principale del sarcofago è rappresentata una scena di caccia, nello specifico la caccia al cinghiale calidonio. Tale scena presenta delle importanti tracce di scalpello, che ne hanno rovinato la rappresentazione, molto probabilmente a seguito del reimpiego del sarcofago come sepoltura della santa.
Il mito racconta che Afrodite, dea della bellezza, adirata nei confronti di Oineo, re di Calidone, aveva inviato un enorme cinghiale in città scatenando il panico. Il figlio di Oineo, Meleagro, la bella Atalanta, giovane e coraggiosa guerriera, e gli zii di Meleagro organizzarono una spedizione per uccidere il cinghiale. Meleagro riuscí ad uccidere il cinghiale, che precedentemente era stato ferito da Atalanta, e volle regalare le spoglie dell’animale come trofeo alla fanciulla. I due zii si infuriarono perché volevano tenere per loro le spoglie, di conseguenza Meleagro, in un impeto di rabbia, li uccise. La madre di Meleagro, vedendo i suoi fratelli morti, presa dalla rabbia nei confronti di suo figlio, fece bruciare il tizzone che teneva in vita Meleagro, e che lei stessa aveva custodito fino ad allora, e così Meleagro morì.
Vaso Francois, scena di caccia al cinghiale calidionio. Louvre (Foto da wikimedia.org)
Sul lato posteriore della cassa, in ottimo stato di conservazione, sono raffigurati due grifi in posizione araldica ed un candelabro, il cui significato, nella risemantizzazione cristiana, è di tipo escatologico.
Il coperchio del sarcofago, certamente più tardo, presenta invece un’iconografia prettamente cristiana. Nelle due falde è rappresentata una croce astile, che si ricollega al tipo dell’imago crucis, dove la croce stessa rappresenta il sacrificio e di conseguenza Cristo stesso. Essa comincia ad affermarsi a partire dal IV secolo.
Nel timpano del lato destro, invece, sono rappresentati Cristo imberbe con nimbo crucigero reggente in mano il Vangelo, e una figura femminile nimbata e velata che regge con una mano la croce e l’altra poggiata sul petto. Si tratta verosimilmente di S. Agata, di cui oggi viene celebrata la festa, particolarmente sentita nella città di Catania.
La pasta, per gli italiani e non solo, rientra tra i pochi alimenti ai quali difficilmente riusciremmo a rinunciare.
Un fitto alone di mistero si cela attorno alle origini di questo cibo.
Nell’antichità era sicuramente conosciuta nella sua forma primordiale dai Greci, ma dopo la caduta dell’Impero Romano se ne persero le tracce fino a quando non fu riscoperta da Arabi e Cinesi.
Una prima distinzione va fatta, però, fra pasta fresca e pasta secca: la prima si ottiene con l’impasto di farina, acqua o uova e doveva essere consumata subito dopo la sua preparazione.
Una prima ipotesi, più o meno accreditata, è che la pasta nel senso moderno del termine sia stata originariamente creata dai Cinesi e si diffuse in Italia ed in Europa dopo il ritorno di Marco Polo dalla corte di Gengis Khan.
Tuttavia, come si è già detto in precedenza, pare che le origini della pasta siano, in realtà, ancor più antiche e probabilmente circoscritte all’area mediterranea: nei primi millenni a.C. forni primitivi o semplici pietre roventi servivano per la cottura di pane e focacce, i primi preparati dal grano.
Le prime testimonianze scritte provengono da Aristofane (V secolo a.C.) che, in una delle sue commedie, descrive un tipo di pasta molto simile ai ravioli.
Un altro esempio in tal senso, stavolta in ambito archeologico, proviene da una tomba di Cerveteri del periodo etrusco: vengono illustrati alcuni attrezzi da cucina utili alla produzione e preparazione dei suddetti “ravioli”.
Con l’avvento del mondo romano le testimonianze diventano sempre più numerose: Orazio e Terenzio menzionano la pasta nei loro scritti (I secolo a.C.) e Apicio (I secolo d.C.), nel suo De re Coquinaria, introduce il termine lagane. Si trattava di strisce di pasta di spessore variabile che potevano essere farcite con carne cotta, ecco perché esse vengono definite le antenate delle attuali lasagne.
Mosaico raffigurante un giovane che serve laganum. Da https://www.researchgate.net/
Dopo la caduta dell’Impero Romano le testimonianze sulla produzione della pasta vengono meno: ciò probabilmente fu dovuto ai secoli turbolenti che seguirono il 476. L’economia e l’agricoltura entrarono in crisi, fu raccolto meno grano e di conseguenza fu prodotta meno pasta fresca.
Nel IX secolo la produzione ricominciò in Africa settentrionale. Si diffuse per la prima volta la pasta secca: contrariamente a quella fresca, questa veniva esposta al calore per eliminare l’acqua in eccesso e al contempo favoriva una maggiore e migliore conservazione nel tempo.
Le prima testimonianze scritte di pasta essiccata in Italia risalgono al XII secolo ad opera del geografo arabo al-Idrisi, che lavorò presso la corte del re Ruggero II di Sicilia.
Nel Libro di Ruggero, una raccolta di carte geografiche pubblicato nel 1154, egli menziona un paesino vicino Palermo di nome Trabia dove abbondavano i mulini per la fabbricazione di un tipo di pasta a fili che veniva modellata a mano e che prese il nome di vermiculi.
Idrisi la chiamò nei suoi scritti itriyya (oggi questo termine si conserva nel termine dialettale tria, ovvero un tipo di pasta tuttora prodotta nell’Italia meridionale), che aveva il significato di “pasta secca stirata e filiforme”.
Dopo la pratica dell’essiccazione, questo tipo di pasta veniva caricata in grandi quantità sulle navi e circolò in tutta l’area mediterranea cristiana e musulmana.
Alla fine del XII secolo, i vermiculi siciliani cominciarono gradualmente a diffondersi prima in Campania tra Amalfi e Napoli e successivamente, tra XIII e XIV secolo, a Salerno.
Tra il XII e il XIII secolo la pasta secca veniva consumata per lo più come cibo di riempimento quasi esclusivamente dai ceti popolari (in particolare contadini) negli stessi luoghi nella quale veniva prodotta, al contrario per i ceti più elevati il consumo era esclusivamente a base di pasta fresca e deperibile.
Nel tardo medioevo la diffusione dei vermiculi avvenne anche a Genova: la stessa tipologia di pasta aveva assunto il nome di fideli oppure di fidelini e fu proprio da tale città che cominciarono i traffici marittimi che portarono alla diffusione dei suddetti in tutta l’Italia centro-settentrionale. I mercanti genovesi avevano ottenuto a loro volta i vermiculi dagli stretti contatti col meridione ed in particolare con la Sicilia.
In seguito ai commerci genovesi anche in Provenza e in Inghilterra la pasta ebbe la sua diffusione e, addirittura, l’Inghilterra fu l’unico paese insieme all’Italia ad avere nei libri di cucina delle ricette di pasta (sebbene, va precisato, fino al XV secolo c’era molta confusione circa il termine pasta, e non si sapeva bene a quale variante si riferisse: dolce, salata, lessa, fritta, ecc.).
Manifattura della pasta. Da Tacuinum Sanitatis - Wikimedia Commons
Il Maestro Martino da Como, il più importante cuoco europeo del XV secolo, nel suo De Arte Coquinaria (caposaldo della cucina gastronomica italiana a cavallo tra il periodo medievale e rinascimentale), è il primo a descrivere minuziosamente il processo di produzione dei vermicelli.
Fu proprio nel XV secolo che cominciarono a diffondersi i primi grandi pastifici artigianali, dapprima nel napoletano a Gragnano. In particolare, in quegli anni, le classi popolari avevano una gran necessità di scorte alimentari durature e per questo motivo si perfezionò su ampia scala la produzione della pasta secca, ulteriormente ottimizzata dall’invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta.
L’ultima grande rivoluzione, che si lega strettamente al presente, avvenne nel XVII secolo. Ancora una volta protagonista fu l’area del napoletano, stavolta sotto il dominio spagnolo. Furono introdotti sulle tavole per la prima volta i pomodori, esportati dal Nuovo Mondo. Seppur guardati con sospetto, poiché si pensava che i frutti fossero velenosi, si diffuse quello che oggi possiamo definire un classico della cucina nostrana: gli spaghetti (che assunsero il nome in via definitiva) al pomodoro, per l’appunto.
L’area napoletana incrementò ancora una volta la produzione, superando nelle vendite la Sicilia grazie ai prezzi molto ribassati e il piatto si diffuse in un primo momento tra i ceti popolari: gli spaghetti venivano mangiati con le mani entro un cartoccio e venivano venduti per le strade da ambulanti che li portavano in grandi pentole fumanti, stipate al di sopra di alcuni carretti.
Saverio della Gatta - Mangiamaccheroni. Da https://www.lasicilia.it
Nel XVIII secolo il piatto si diffuse per ultimo anche sulle tavole dei nobili, ma solo dopo l’invenzione (o meglio, il perfezionamento) di uno strumento indispensabile: la forchetta.
Quest’ultima era stata inventata qualche secolo prima ma era inizialmente composta da due “denti”. Ad un ciambellano alla corte del Regno di Napoli, Gennaro Spadaccini, si deve l’incremento a quattro, così per come la conosciamo ad oggi.
Insomma tutto ciò che oggi fa parte del nostro quotidiano ha spesso delle radici molto più antiche, che ci legano peraltro a diversi popoli e tradizioni. Conoscerle e farla conoscere è, e sempre sarà, la nostra missione.
Con oggi si concludono le festività natalizie e così domani, con un pizzico di nostalgia, saremo costretti a togliere dalle nostre case tutti gli addobbi, l’albero e il presepe.
A proposito del presepe, vi siete mai chiesti da dove ha avuto origine?
La tradizione attribuisce la nascita del presepe moderno a San Francesco d’Assisi, il quale, dopo pellegrinaggio in Terra Santa nel 1223, rimasto colpito da Betlemme, chiese a Papa Onorio III di realizzare a Greccio, vicino Rieti, un presepe.
Il presepe di Francesco era costituito da una mangiatoia, da un asinello e dal bue, e su di esso il Santo celebrò l'Eucaristia, facendo rivivere ai presenti il miracolo della nascita di Dio.
Giotto, Presepe di Greccio, 1295-1299 circa, Assisi, Basilica Superiore (https://www.arteworld.it/presepe-di-greccio-giotto-analisi/)
L’evento della Natività è tra le scene più antiche e più raffigurate della storia. La sua importanza è dovuta al suo manifestare e spiegare il mistero della duplice natura di Cristo, umana e divina.
Giovanni Damasceno, padre e dottore della Chiesa vissuto tra il VII e VIII secolo, afferma che «un tempo Dio, non avendo né corpo né figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da una immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e che ha vissuto con gli uomini, posso fare una immagine di ciò che ho visto di Dio».
Il momento della nascita di Cristo non è narrato allo stesso modo in tutti e quattro i Vangeli. Luca e Matteo narrano la nascita di Gesù, avvenuta al tempo della grande pace Augustea; Giovanni fornisce una definizione di carattere teologico «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»; mentre Luca fornisce maggiori dettagli come la sistemazione del Bambino all’interno di una mangiatoia e l’arrivo dei pastori guidati dagli angeli.
Gli altri elementi a noi familiari dell’iconografia della Natività vengono forniti dai vangeli apocrifi come, ad esempio, il Protovangelo di Giacomo (II secolo), il Vangelo arabo dell’Infanzia (VIII-IX secolo) e il Vangelo dello pseudo-Matteo (IX secolo).
La più antica rappresentazione della Natività si trova a Roma, all’interno delle catacombe di Priscilla, datata al II secolo. La scena è dipinta all’interno di un arcosolio (sepoltura scavata nella roccia e sormontata da una nicchia arcuata) ed è costituita dalla Vergine seduta con il Bambino in braccio e da una figura maschile che indica la stella, probabilmente il profeta Balaam secondo l’interpretazione di un passo delle Scritture che recita «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17).
Scena della Natività, Catacombe di Priscilla, Roma (Natività, Catacombe di Priscilla, Gloria in Excelsis. La Natività nell’arte.
Percorso storico-artistico. Centro storico di Pesche (IS), 7 dicembre 2012 – 8 gennaio 2013)
Nelle scene più antiche Gesù è affiancato da uno o due pastori o anche da un profeta raffigurato con un rotolo di pergamena. Maria, invece, appare seduta su una pietra in disparte.
Dal V secolo comincia ad essere rappresentato Giuseppe, in sostituzione del pastore o del profeta, e solo a partire dal VI secolo Maria diventa il secondo punto focale della rappresentazione.
La vera e propria rappresentazione della Natività, così come oggi la conosciamo, compare intorno al IV secolo nell’arte cristiana grazie al Concilio di Efeso del 431, durante il quale venne proclamata la maternità di Maria; grazie all’istituzione del 25 dicembre, menzionato nel Depositio martyrum del 335 e infine, grazie alla costruzione della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma nel 435 all’interno della quale furono custodite le reliquie della mangiatoia ed è per questo detta “Sancta Maria ad Praesepe”.
Reliquia Santa Culla a Santa Maria Maggiore, Roma
(http://elioarte.blogspot.com/2013/01/roma-basilica-di-santa-maria-maggiore.html)
La presenza del bue e dell’asinello non è menzionata nei Vangeli, ma solo nei testi apocrifi e in un trattato di Origene del 220 in riferimento ad una profezia di Isaia, che avrebbe consentito di interpretare i due animali come simbolo della religione ebraica (il bue) e del paganesimo (l’asino) e del loro rifiuto di riconoscere in Cristo il Messia. I due animali sono stati, inoltre, interpretati come la raffigurazione dell’Antico Testamento (l’asino) contrapposto al Nuovo (il bue), come affermato da San Girolamo.
Giotto, Scena della Natività, Cappella degli Scrovegni
(http://www.ilcaffeartisticodilo.it/giotto-la-nativita-nella-cappella-degli-scrovegni-di-padova/)
Altro elemento centrale nelle raffigurazioni delle scene della Natività è dato dalla stella, che in una primissima fase appare in stretta connessione alla raffigurazione dell’Adorazione dei Magi.
L’identificazione delle stelle con gli angeli traspare in molti testi biblici e della letteratura giudaica. Nell’iconografia cristiana antica la stella non è mai rappresentata con la coda, ma veniva raffigurata a fiore, a rosone o a forma di cerchio luminoso. Con il trascorrere del tempo è stata sostituita dalla testa di un cherubino o da un angelo in volo, e ciò spiegherebbe la corrispondenza tra la stella e l’angelo.
La comune rappresentazione a forma di cometa e la dicitura “stella cometa” si deve a Giotto, che impressionato dal passaggio della Cometa di Halley nel 1301, la dipinse nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Giotto, dettaglio della Cometa, Cappella degli Scrovegni, Padova (Cometa, Gloria in Excelsis. La Natività nell’arte.
Percorso storico-artistico. Centro storico di Pesche (IS), 7 dicembre 2012 – 8 gennaio 2013)
Le prime rappresentazioni dell’Adorazione dei Magi sono molto semplici e mirano a sottolineare il carattere simbolico del viaggio intrapreso dai tre Magi. L’indicazione del numero tre si deva a Papa Leone Magno (V secolo) in quanto i Vangeli non menzionano il loro numero esatto. La scelta di tale numero non è casuale, ma da ricollegare, come insegna Dante, alla sua natura divina. Le raffigurazioni più antiche sono molto semplici e lineari e includono solo la Madonna con il Bambino, rappresentato di circa due anni e in piedi, e i Magi. Gesù indossa una corta tunica ed è raffigurato in atto di benedire o stendere le mani verso i presenti.
Scena Adorazione dei Magi, Cappella Greca nella Catacombe di Priscilla, Roma
(http://iconos.verboencarnado.net/primera-genesis-de-la-imagen-cristiana/roma-catacombe-di-priscilla-cappella-greca-adorazione-dei-magi-iii-sec/)
Nei primi secoli i Magi sono giovani imberbi e rappresentati secondo lo stesso modulo figurativo. Vestono in stile orientale con le brache e una corta tunica, a volte coperta da una clamide (un mantello), e il caratteristico berretto frigio, il pileus. I doni offerti - oro, incenso e mirra - sono posti su un semplice piatto e un elemento molto interessante è dato dalle mani, che coperte da un lembo del mantello, sono simbolo di purezza e di venerazione secondo il cerimoniale imperiale romano. L’oro è il simbolo della regalità di Cristo, l’incenso della sua divinità, mentre la mirra, usata nell’imbalsamazione, è il simbolo della morte e del sacrificio.
Con il trascorrere del tempo la rappresentazione dei Magi subisce un’evoluzione dovuta alla differenziazione della raffigurazione dei soggetti (uno imberbe, uno con barba nera, uno con barba bianca) come nel caso del mosaico di VI secolo nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna.
Ravenna, S. Apollinare Nuovo, Mosaico con i Magi
(https://www.aboutartonline.com/la-nativita-e-lepifania-nei-sarcofagi-dellantichita-e-nellarte-cristiana-e-paleocristiana/)
Scene dell’Adorazione dei Magi sono molto frequenti nei coperchi di alcuni sarcofagi del IV secolo. Un esempio è dato dal celebre sarcofago di Adelfia scoperto da Francesco Saverio Cavallari, il 12 settembre del 1872, all’interno dell’omonima rotonda nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa. Nella rappresentazione i Magi, collocati a sinistra, portano rispettivamente una corona d’oro, sei grani d’incenso e due fialette di mirra; Gesù è collocato all’interno di una cesta ed è fiancheggiato dal bue e dall’asino; a destra si erge la figura di un pastore con bastone ricurvo e la Vergine seduta su una roccia.
Scena Adorazione dei Magi, Dettaglio del coperchio del Sarcofago di Adelfia, Siracusa.
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sarcofago_di_Adelfia_(scene)_07.jpg)
Conoscevate queste curiosità? Cogliamo l’occasione per augurarvi una Buona Festa dell’Epifania.
Lo scorso 21 dicembre siamo entrati ufficialmente nella stagione invernale, la più fredda dell’anno, che precede l’arrivo della primavera e del bel tempo. In passato, per spiegare il fenomeno della ciclicità delle stagioni che ha da sempre caratterizzato l’intera umanità, l’uomo ha fatto ricorso ai racconti mitologici con lo scopo di tentare di trovare un perché a ciò che lo circondava.
Tra i miti più famosi e celebrati della tradizione greca ricordiamo l’episodio del “Ratto di Persefone” e della disperata ricerca da parte della dea delle messi Demetra.
Le pendici dell’Etna e le rive del meraviglioso lago di Pergusa ad Enna rappresentano lo scenario di questo particolare racconto. Tuttavia, fonti antiche, tra le quali Strabone, sostengono che l’episodio del mito non si sia verificato nella fertile Sicilia, bensì in area calabrese e per la precisione ad Hipponium, odierna Vibo Valentia.
Demetra, dea dei campi e del grano, aveva una figlia, la bellissima Persefone detta anche Kore, che un giorno le fu strappata dal perfido Ade, il dio degli inferi. Quest’ultimo, infatti, innamorato della fanciulla chiese a Zeus, padre degli Dei, il permesso di sposarla. Zeus, però, non avrebbe potuto né negare né concedere il suo consenso.
Ade, pazzo d’amore per la bella Persefone, decise di raggiungere la fanciulla mentre era intenta a cogliere fiori in un meraviglioso prato verde. Uscito dagli inferi e trasportato da un grande carro trainato da quattro cavalli neri, la rapì e la condusse nell’Oltretomba per farla sua sposa.
Il ratto di Persefone, opera di Gian Lorenzo Bernini conservato nella Galleria Borghese di Roma.
(https://it.wikipedia.org/wiki/Ratto_di_Proserpina_Bernini)
La madre Demetra, disperata, la cercò ovunque senza sosta per nove giorni e nove notti, mentre la natura, riflettendo il dolore della dea per la scomparsa della figlia, cominciò ad appassire. Zeus, preoccupato, ordinò ad Ade l’immediata liberazione della fanciulla: il dio dell’Oltretomba obbedì ma non prima di mettere in atto il proprio inganno. Prima di ricondurre Persefone dalla madre le offrì in pasto una melagrana, il frutto dell’Oltretomba, se non anche simbolo di matrimonio e fertilità. La consumazione di tale frutto, infatti, avrebbe impedito alla fanciulla di restare per sempre nel regno dei vivi. Dal momento che ne aveva mangiato solo sei chicchi Persefone sarebbe rimasta negli inferi per sei mesi l’anno, per poi fare ritorno tra le braccia della madre che avrebbe nuovamente fatto rifiorire il mondo. Demetra, così, decretò che nei mesi nei quali la figlia fosse rimasta nel regno dei morti nel mondo sarebbe calato il freddo ed il gelo dando origine all’autunno e all’inverno, mentre nei restanti mesi, che avrebbe passato in compagnia della figlia, la terra sarebbe rifiorita dando origine alla primavera e all’estate.
Acroliti di Demetra e Kore conservati nel Museo Archeologico di Aidone, Enna.
La Sicilia, strettamente connessa alle figure di Demetra e della figlia Kore, è ricca di templi, strutture ed aree naturali dedicati alle due dee. Inoltre, nell’isola, l’antico culto delle due divinità ha lasciato tracce sino ai giorni nostri, individuabili nella celebrazione di alcune feste religiose cristiane. Durante le Tesmoforie, antiche feste celebrate in onore di Demetra, era tipica l’abitudine di gettare resti di carne putrefatta nei campi con lo scopo di favorire il raccolto agricolo. Fino a non molto tempo fa, una situazione particolarmente simile si presentava durante la festa religiosa di San Giorgio a Ragusa, nella quale grossi pani venivano portati in processione dalla popolazione, per poi successivamente essere sminuzzati e distribuiti agli agricoltori presenti, affinché ognuno di essi ne buttasse un pezzo nel proprio campo agricolo propiziando il buon raccolto.
Nel centro di Catania è stato rinvenuto il più grande deposito votivo greco, colmo di ceramica, terrecotte figurate e materiali vari dedicati al culto di Demetra e Kore, databili tra gli inizi del VI e la fine del IV secolo a.C. Inoltre, il rinvenimento di ceramica d’importazione proveniente da diverse regioni greche evidenzia come l’area assumesse una notevole importanza nel Mediterraneo, sottolineandone una frequentazione di persone provenienti dall’intera Grecia.
Reperti provenienti dalla stipe votiva rinvenuta nel centro di Catania. (Foto da lasicilia.it)
Restando sempre a Catania, a nord della città, nel quartiere di San Giovanni Galermo, è situata la celebre grotta di San Giovanni, nella quale secondo la leggenda sarebbe fuoriuscito il dio Ade per portare a compimento il tremendo piano di rapimento della fanciulla.
Ma da dove deriva il suo nome?
Oltre alla leggenda riguardante la fuoriuscita di Ade dagli inferi, la grotta è connessa anche ad un famoso personaggio della cristianità. Si tratta di San Giovanni Battista che, stando alla leggenda, giunto in Sicilia avrebbe trovato riparo nella grotta, trascorrendovi una notte. La cavità si mostrò molto utile per la popolazione catanese anche nel corso della Seconda Guerra Mondiale, rappresentando un rifugio sicuro dai bombardamenti aerei. I recenti interventi di rilevamento topografico hanno permesso il rinvenimento di frammenti di ceramica appartenenti alla cultura di Castelluccio e alla fase bizantina dell’isola.
Tuttavia, testimonianze del culto di Persefone provengono anche dalla Magna Grecia. Molti reperti materiali, infatti, sono stati rinvenuti in territorio calabrese a seguito di vari scavi archeologici svolti nel sito di Locri Epizefiri. Le principali attività di ricerca di svolsero nel primo decennio del secolo scorso sotto la guida dell’intraprendente archeologo Paolo Orsi (1859-1935), che si rese protagonista del rinvenimento di un immenso deposito votivo connesso ad un Persephoneion, un santuario dedicato alla dea Persefone. Tra le numerosissime offerte votive rinvenute nel grande deposito spiccano senza dubbio i cosiddetti pinakes. Si tratta di sottili tavolette rettangolari in terracotta, decorate a bassorilievo ed arricchite da una vivace colorazione policroma, databili alla metà del V secolo. Le scene raffigurate appaiono legate al culto della dea Persefone. I pinakes sembrerebbero tracciare l’evoluzione della figura stessa della dea, che passa da giovane vergine a donna sposata e regina degli inferi. Di conseguenza, sono rappresentate scene della sua fanciullezza, del suo rapimento ad opera del dio Ade, dei preparativi per le solenni nozze, fino a giungere alla raffigurazione della dea seduta in trono in compagnia del suo sposo con altre divinità al cospetto. Spesso le scene sono caratterizzate esclusivamente dalla sola rappresentazione di Persefone, che appare seduta in trono in tutta la sua maestosità, sinonimo della grande devozione che i cittadini locresi nutrivano nei confronti della regina dell’Oltretomba.
Ratto di Persefone (https://it.wikipedia.org/wiki/Pinax#/media/File:Pinax_con_Ade_che_rapisce_Kore-Persefone,_da_Locri_-_MARC.jpg)
Persefone e Ade seduti in trono (https://it.wikipedia.org/wiki/Pinax#/media/File:Locri_Pinax_Of_Persephone_And_Hades.jpg)
Persefone viene, dunque, rappresentata come la fanciulla che diventa donna per mezzo del rapimento ad opera di Ade.
Il messaggio celato dietro alle scene, rappresentate nei pinakes locresi, è quello di una divinità intesa come personificazione del passaggio, dello scorrere delle stagioni e del transito dalla vita terrena a quella ultraterrena.
La maggior parte di questi quadretti in terracotta oggi è possibile ammirarla presso il Museo Nazionale di Reggio Calabria e presso il Museo Archeologico Nazionale di Locri Epizefiri.
Voi conoscevate questo racconto? Avete mai visitato i luoghi in cui è ambientato il mito di Demetra e Persefone?
Si avvicinano le feste e ritorna il periodo in cui si trascorre più tempo con i giochi da tavolo.
Sin dai periodi più antichi della storia i giochi hanno avuto la loro importanza. Ma sapete quali erano i giochi più comuni nell’antichità? Per lo più erano molto simili al backgammon o più lontanamente agli scacchi, perché composti da una tavola da gioco, dadi e pedine. Le regole non sono sempre chiare ma sono state ricostruite dagli studiosi tramite lo studio dei pezzi, delle raffigurazioni e da alcune tavole esplicative.
Tra i più antichi vi è certamente quello rinvenuto nel 1920 circa nella tomba di un re sumero nell'antica città di Ur in Mesopotamia (attuale Iraq): si trattava un gioco denominato Gioco reale di Ur databile tra il 2400 a.C. e il 2600 a.C.
Questo gioco, considerato l’antenato del backgammon, è costituito da una tavola rettangolare di 8x3 caselle a cui mancano due caselle esterne da ciascuno dei due lati lunghi. Le tavole da gioco sono cave per conservare gli altri componenti del gioco: pedine e dadi.
Il materiale utilizzato poteva essere povero o molto ricco: dall’ardesia decorata con motivi geometrici in madreperla a quelle con inserti in lapislazzuli e corniola.
Gioco reale di Ur, British Museum https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Royal_game_of_Ur,at_the_British_Museum.jpg
Un gioco molto simile si sviluppò in Egitto, il Senet.
Una delle testimonianze principali è stata rinvenuta nella Tomba di Tutankhamon, in cui sono state trovate delle tavole da gioco di 3x10 caselle risalenti al 1500 a.C.
Oggi si conoscono molte tavole da gioco che provengono da diverse sepolture, proprio come quella rinvenuta nella Tomba di Kha da Schiapparelli nel 1906 ed ora esposta al Museo Egizio di Torino.
Il ritrovamento di diverse raffigurazioni parietali che mostrano i giocatori ha chiarito alcuni aspetti su questo gioco. Il termine Senet significa "passaggio" motivo per cui si è ipotizzato che, oltre ad essere un passatempo, aveva anche un significato religioso legato al passaggio dalla vita terrena all'aldilà. Vi era la credenza che il risultato di una partita di Senet, giocata fra il defunto e la personificazione del Destino, potesse determinare la sorte dopo la morte. Questo legame con la morte probabilmente fu la ragione che determinò l’inserimento nelle tombe di tavolette da gioco e immagini raffiguranti il giocatore.
Inizialmente era utilizzato solo dai faraoni (V - IV millennio a.C.), ma intorno al 1500 a.C. ebbe una più larga diffusione.
Senet, tavola in faience con iscrizione che riporta Amunhotep III, Tebe (Foto di Keith Schengili-Roberts
Senet Tomba di Kha, Museo Egizio Torino (Foto da sito web Museo Egizio di Torino)
La Grecia naturalmente non poteva essere esclusa nella trattazione dei giochi antichi. Si diffuse con il nome di Petteia, pessoi o polis ma, sfortunatamente, sono davvero poche le informazioni in nostro possesso (viene citato da Platone e Omero).
A differenza degli altri giochi antichi, in esso non erano utilizzati dadi ma solo pedine.
Le fonti principali riguardanti l’esistenza di questo gioco sono le raffigurazioni sui vasi con avversari che si sfidano, un esempio è il famoso vaso di Exekias con Achille e Aiace che giocano a dadi. Questa denominazione del gioco è stata definita in mancanza di un nome preciso, poiché non si conosce con esattezza quale fosse; ciò che è mostrato sul vaso sono i due eroi seduti davanti ad una tavola da gioco.
Achille e Aiace che giocano a dadi, Exekias (530 a.C. circa), Museo Gregoriano Etrusco, Musei Vaticani (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Akhilleus_Aias_MGEt_16757.jpg )
Questo gioco probabilmente giunse fino a Roma, dove assunse il nome di Ludus Lantrunculorum derivato da Latrunculi, ovvero briganti, mercenari. Purtroppo sono state rinvenute pochissime tavole da gioco e nessuna di esse integra, di conseguenza non è stato possibile giungere ad una ricostruzione precisa della forma della tavola e del gioco.
Un altro gioco molto utilizzato dai romani era il Ludus duodecim scriptorum ("gioco delle dodici linee"), Alea ("dado") o Tabula ("tavola"). Esso era provvisto di una tavola, di pedine e dadi, ed era largamente diffuso senza distinzioni sociali.
Svetonio menziona questo gioco nella sua opera De vita Caesarum (Vite dei Cesari) nel libro dedicato all'imperatore Claudio che, come lui afferma, ne era un grande appassionato:
«Con gran passione giocava ai dadi, su la quale arte mise fuori anche un libro; e soleva giocare anche in viaggio, facendo adattare il cocchio e il tavoliere in modo che il giuoco non si scompigliasse».
Tavola Ludus duodecim scriptorum Museo di Efeso (Foto di Jens Christoffersen)
Questo gioco, naturalmente, venne esportato anche a Pompei ed è testimoniato dal rinvenimento di alcune raffigurazioni parietali. All'interno di una taverna è stata ritrovata la rappresentazione di una partita: si tratta di una scena molto divertente poiché ci racconta come terminò la partita, ovvero con insulti reciproci tra i giocatori.
Giocatori di dadi. Taverna di Salvius, Pompei (Foto da Pompei - Parco Archeologico Pagina Facebook)
Un caso diverso è quello delle Terme Stabiane in cui è stata rinvenuta un’iscrizione che attesta la vittoria di un giocatore di una buona somma di denaro giocando onestamente e senza barare.
“Ho vinto a Nocera giocando a dadi 855 denarii e mezzo, e senza barare.”
(da Portale Numismatico dello Stato)
Da queste tipologie di giochi deriva sicuramente la Tabula: si tratta di una evoluzione tarda del ludus duodecim scriptorum in cui venne rimossa la fila centrale di caselle e rimasero sulla tavola solo le due righe laterali. In questo modo divenne veramente simile alla tavola del Backgammon. Anche in questo gioco oltre alla tavola vi erano le pedine e tre dadi. Una delle fonti più antiche è l’epigramma dello storico bizantino Agazia in cui è descritta una partita giocata dall'imperatore romano d'Oriente Zenone.
Illustrazione del XIII secolo raffigurante giocatori di tabula (da Unbekannter Schreiber, Kloster Bendikbeuren)
Questa tipologia di gioco provvisto di una tavola raggiunse anche l’Asia: nel IX secolo era chiamato Nard.
In Europa durante le Crociate, i soldati conobbero questo gioco dagli Arabi denominato takht-e nard, o semplicemente Nard.
Durante il medioevo la Chiesa cercò invano di bandire questi giochi poiché erano ritenuti d’azzardo, ma essi si diffusero sempre più con varianti e nomi diversi: Tavola Reale in Italia, Tablas Reales in Spagna, Tavli in Grecia, Tavla in Turchia, Tric Trac in Francia e in Italia, Backgammon o Tables in Gran Bretagna, Puff in Germania, Vrhcaby in Cecoslovacchia, Swan-liu in Cina, Golaka-Krida in India.
Questi giochi seppure con delle differenze presentano caratteristiche molto simili.
Fu solo nel 1743 Edmond Hoyle pubblicò un breve trattato per codificare le regole del backgammon, che è sicuramente uno dei giochi utilizzati ancora oggi che ricorda maggiormente quelli del passato.
Voi li conoscevate? Avete mai giocato a backgammon?