Dic 30

Lo scorso 21 dicembre siamo entrati ufficialmente nella stagione invernale, la più fredda dell’anno, che precede l’arrivo della primavera e del bel tempo. In passato, per spiegare il fenomeno della ciclicità delle stagioni che ha da sempre caratterizzato l’intera umanità, l’uomo ha fatto ricorso ai racconti mitologici con lo scopo di tentare di trovare un perché a ciò che lo circondava.
Tra i miti più famosi e celebrati della tradizione greca ricordiamo l’episodio del “Ratto di Persefone” e della disperata ricerca da parte della dea delle messi Demetra.

Le pendici dell’Etna e le rive del meraviglioso lago di Pergusa ad Enna rappresentano lo scenario di questo particolare racconto. Tuttavia, fonti antiche, tra le quali Strabone, sostengono che l’episodio del mito non si sia verificato nella fertile Sicilia, bensì in area calabrese e per la precisione ad Hipponium, odierna Vibo Valentia.                                                                     

Demetra, dea dei campi e del grano, aveva una figlia, la bellissima Persefone detta anche Kore, che un giorno le fu strappata dal perfido Ade, il dio degli inferi. Quest’ultimo, infatti, innamorato della fanciulla chiese a Zeus, padre degli Dei, il permesso di sposarla. Zeus, però, non avrebbe potuto né negare né concedere il suo consenso.
Ade, pazzo d’amore per la bella Persefone, decise di raggiungere la fanciulla mentre era intenta a cogliere fiori in un meraviglioso prato verde. Uscito dagli inferi e trasportato da un grande carro trainato da quattro cavalli neri, la rapì e la condusse nell’Oltretomba per farla sua sposa. 

 

                                                                                   

          Il ratto di Persefone, opera di Gian Lorenzo Bernini conservato nella Galleria Borghese di Roma.

   (https://it.wikipedia.org/wiki/Ratto_di_Proserpina_Bernini)

La madre Demetra, disperata, la cercò ovunque senza sosta per nove giorni e nove notti, mentre la natura, riflettendo il dolore della dea per la scomparsa della figlia, cominciò ad appassire. Zeus, preoccupato, ordinò ad Ade l’immediata liberazione della fanciulla: il dio dell’Oltretomba obbedì ma non prima di mettere in atto il proprio inganno. Prima di ricondurre Persefone dalla madre le offrì in pasto una melagrana, il frutto dell’Oltretomba, se non anche simbolo di matrimonio e fertilità. La consumazione di tale frutto, infatti, avrebbe impedito alla fanciulla di restare per sempre nel regno dei vivi. Dal momento che ne aveva mangiato solo sei chicchi Persefone sarebbe rimasta negli inferi per sei mesi l’anno, per poi fare ritorno tra le braccia della madre che avrebbe nuovamente fatto rifiorire il mondo. Demetra, così, decretò che nei mesi nei quali la figlia fosse rimasta nel regno dei morti nel mondo sarebbe calato il freddo ed il gelo dando origine all’autunno e all’inverno, mentre nei restanti mesi, che avrebbe passato in compagnia della figlia, la terra sarebbe rifiorita dando origine alla primavera e all’estate.

                                        
Acroliti di Demetra e Kore conservati nel Museo Archeologico di Aidone, Enna.

La Sicilia, strettamente connessa alle figure di Demetra e della figlia Kore, è ricca di templi, strutture ed aree naturali dedicati alle due dee. Inoltre, nell’isola, l’antico culto delle due divinità ha lasciato tracce sino ai giorni nostri, individuabili nella celebrazione di alcune feste religiose cristiane. Durante le Tesmoforie, antiche feste celebrate in onore di Demetra, era tipica l’abitudine di gettare resti di carne putrefatta nei campi con lo scopo di favorire il raccolto agricolo. Fino a non molto tempo fa, una situazione particolarmente simile si presentava durante la festa religiosa di San Giorgio a Ragusa, nella quale grossi pani venivano portati in processione dalla popolazione, per poi successivamente essere sminuzzati e distribuiti agli agricoltori presenti, affinché ognuno di essi ne buttasse un pezzo nel proprio campo agricolo propiziando il buon raccolto.

Nel centro di Catania è stato rinvenuto il più grande deposito votivo greco, colmo di ceramica, terrecotte figurate e materiali vari dedicati al culto di Demetra e Kore, databili tra gli inizi del VI e la fine del IV secolo a.C. Inoltre, il rinvenimento di ceramica d’importazione proveniente da diverse regioni greche evidenzia come l’area assumesse una notevole importanza nel Mediterraneo, sottolineandone una frequentazione di persone provenienti dall’intera Grecia. 

 

                                            

                                            
  Reperti provenienti dalla stipe votiva rinvenuta nel centro di Catania. (Foto da lasicilia.it)


Restando sempre a Catania, a nord della città, nel quartiere di San Giovanni Galermo, è situata la celebre grotta di San Giovanni, nella quale secondo la leggenda sarebbe fuoriuscito il dio Ade per portare a compimento il tremendo piano di rapimento della fanciulla.
Ma da dove deriva il suo nome?
Oltre alla leggenda riguardante la fuoriuscita di Ade dagli inferi, la grotta è connessa anche ad un famoso personaggio della cristianità. Si tratta di San Giovanni Battista che, stando alla leggenda, giunto in Sicilia avrebbe trovato riparo nella grotta, trascorrendovi una notte. La cavità si mostrò molto utile per la popolazione catanese anche nel corso della Seconda Guerra Mondiale, rappresentando un rifugio sicuro dai bombardamenti aerei. I recenti interventi di rilevamento topografico hanno permesso il rinvenimento di frammenti di ceramica appartenenti alla cultura di Castelluccio e alla fase bizantina dell’isola.


Tuttavia, testimonianze del culto di Persefone provengono anche dalla Magna Grecia. Molti reperti materiali, infatti, sono stati rinvenuti in territorio calabrese a seguito di vari scavi archeologici svolti nel sito di Locri Epizefiri. Le principali attività di ricerca di svolsero nel primo decennio del secolo scorso sotto la guida dell’intraprendente archeologo Paolo Orsi (1859-1935), che si rese protagonista del rinvenimento di un immenso deposito votivo connesso ad un Persephoneion, un santuario dedicato alla dea Persefone. Tra le numerosissime offerte votive rinvenute nel grande deposito spiccano senza dubbio i cosiddetti pinakes. Si tratta di sottili tavolette rettangolari in terracotta, decorate a bassorilievo ed arricchite da una vivace colorazione policroma, databili alla metà del V secolo. Le scene raffigurate appaiono legate al culto della dea Persefone. I pinakes sembrerebbero tracciare l’evoluzione della figura stessa della dea, che passa da giovane vergine a donna sposata e regina degli inferi. Di conseguenza, sono rappresentate scene della sua fanciullezza, del suo rapimento ad opera del dio Ade, dei preparativi per le solenni nozze, fino a giungere alla raffigurazione della dea seduta in trono in compagnia del suo sposo con altre divinità al cospetto. Spesso le scene sono caratterizzate esclusivamente dalla sola rappresentazione di Persefone, che appare seduta in trono in tutta la sua maestosità, sinonimo della grande devozione che i cittadini locresi nutrivano nei confronti della regina dell’Oltretomba. 


                                                  Ratto di Persefone (https://it.wikipedia.org/wiki/Pinax#/media/File:Pinax_con_Ade_che_rapisce_Kore-Persefone,_da_Locri_-_MARC.jpg)

                                                       

Persefone e Ade seduti in trono (https://it.wikipedia.org/wiki/Pinax#/media/File:Locri_Pinax_Of_Persephone_And_Hades.jpg)


Persefone viene, dunque, rappresentata come la fanciulla che diventa donna per mezzo del rapimento ad opera di Ade.
Il messaggio celato dietro alle scene, rappresentate nei pinakes locresi, è quello di una divinità intesa come personificazione del passaggio, dello scorrere delle stagioni e del transito dalla vita terrena a quella ultraterrena.
La maggior parte di questi quadretti in terracotta oggi è possibile ammirarla presso il Museo Nazionale di Reggio Calabria e presso il Museo Archeologico Nazionale di Locri Epizefiri.

Voi conoscevate questo racconto? Avete mai visitato i luoghi in cui è ambientato il mito di Demetra e Persefone?

Dic 18

Si avvicinano le feste e ritorna il periodo in cui si trascorre più tempo con i giochi da tavolo.
Sin dai periodi più antichi della storia i giochi hanno avuto la loro importanza. Ma sapete quali erano i giochi più comuni nell’antichità? Per lo più erano molto simili al backgammon o più lontanamente agli scacchi, perché composti da una tavola da gioco, dadi e pedine. Le regole non sono sempre chiare ma sono state ricostruite dagli studiosi tramite lo studio dei pezzi, delle raffigurazioni e da alcune tavole esplicative.

Tra i più antichi vi è certamente quello rinvenuto nel 1920 circa nella tomba di un re sumero nell'antica città di Ur in Mesopotamia (attuale Iraq): si trattava un gioco denominato Gioco reale di Ur databile tra il 2400 a.C. e il 2600 a.C.

Questo gioco, considerato l’antenato del backgammon, è costituito da una tavola rettangolare di 8x3 caselle a cui mancano due caselle esterne da ciascuno dei due lati lunghi. Le tavole da gioco sono cave per conservare gli altri componenti del gioco: pedine e dadi.

Il materiale utilizzato poteva essere povero o molto ricco: dall’ardesia decorata con motivi geometrici in madreperla a quelle con inserti in lapislazzuli e corniola.



Gioco reale di Ur, British Museum https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Royal_game_of_Ur,at_the_British_Museum.jpg

 

Un gioco molto simile si sviluppò in Egitto, il Senet

Una delle testimonianze principali è stata rinvenuta nella Tomba di Tutankhamon, in cui sono state trovate delle tavole da gioco di 3x10 caselle risalenti al 1500 a.C.

Oggi si conoscono molte tavole da gioco che provengono da diverse sepolture, proprio come quella rinvenuta nella Tomba di Kha da Schiapparelli nel 1906 ed ora esposta al Museo Egizio di Torino. 

Il ritrovamento di diverse raffigurazioni parietali che mostrano i giocatori ha chiarito alcuni aspetti su questo gioco. Il termine Senet significa "passaggio" motivo per cui si è ipotizzato che, oltre ad essere un passatempo, aveva anche un significato religioso legato al passaggio dalla vita terrena all'aldilà. Vi era la credenza che il risultato di una partita di Senet, giocata fra il defunto e la personificazione del Destino, potesse determinare la sorte dopo la morte. Questo legame con la morte probabilmente fu la ragione che determinò l’inserimento nelle tombe di tavolette da gioco e immagini raffiguranti il giocatore.

Inizialmente era utilizzato solo dai faraoni (V - IV millennio a.C.), ma intorno al 1500 a.C. ebbe una più larga diffusione. 

Senet, tavola in faience con iscrizione che riporta Amunhotep III, Tebe (Foto di Keith Schengili-Roberts


Senet Tomba di Kha, Museo Egizio Torino (Foto da sito web Museo Egizio di Torino)

 

La Grecia naturalmente non poteva essere esclusa nella trattazione dei giochi antichi. Si diffuse con il nome di Petteia, pessoi o polis ma, sfortunatamente, sono davvero poche le informazioni in nostro possesso (viene citato da Platone e Omero). 

A differenza degli altri giochi antichi, in esso non erano utilizzati dadi ma solo pedine.

Le fonti principali riguardanti l’esistenza di questo gioco sono le raffigurazioni sui vasi con avversari che si sfidano, un esempio è il famoso vaso di Exekias con Achille e Aiace che giocano a dadi. Questa denominazione del gioco è stata definita in mancanza di un nome preciso, poiché non si conosce con esattezza quale fosse; ciò che è mostrato sul vaso sono i due eroi seduti davanti ad una tavola da gioco.


Achille e Aiace che giocano a dadi, Exekias (530 a.C. circa), Museo Gregoriano Etrusco, Musei Vaticani (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Akhilleus_Aias_MGEt_16757.jpg )


Questo gioco probabilmente giunse fino a Roma, dove assunse il nome di Ludus Lantrunculorum derivato da Latrunculi, ovvero briganti, mercenari. Purtroppo sono state rinvenute pochissime tavole da gioco e nessuna di esse integra, di conseguenza non è stato possibile giungere ad una ricostruzione precisa della forma della tavola e del gioco. 


Un altro gioco molto utilizzato dai romani era il Ludus duodecim scriptorum ("gioco delle dodici linee"), Alea ("dado") o Tabula ("tavola"). Esso era provvisto di una tavola, di pedine e dadi, ed era largamente diffuso senza distinzioni sociali.

Svetonio menziona questo gioco nella sua opera De vita Caesarum (Vite dei Cesari) nel libro dedicato all'imperatore Claudio che, come lui afferma, ne era un grande appassionato: 

«Con gran passione giocava ai dadi, su la quale arte mise fuori anche un libro; e soleva giocare anche in viaggio, facendo adattare il cocchio e il tavoliere in modo che il giuoco non si scompigliasse».

 

Tavola Ludus duodecim scriptorum Museo di Efeso (Foto di Jens Christoffersen)

Questo gioco, naturalmente, venne esportato anche a Pompei ed è testimoniato dal rinvenimento di alcune raffigurazioni parietali. All'interno di una taverna è stata ritrovata la rappresentazione di una partita: si tratta di una scena molto divertente poiché ci racconta come terminò la partita, ovvero con insulti reciproci tra i giocatori.

 

Giocatori di dadi. Taverna di Salvius, Pompei (Foto da Pompei - Parco Archeologico Pagina Facebook)

https://www.lacooltura.com/

 Un caso diverso è quello delle Terme Stabiane in cui è stata rinvenuta un’iscrizione che attesta la vittoria di un giocatore di una buona somma di denaro giocando onestamente e senza barare.

 



“Ho vinto a Nocera giocando a dadi 855 denarii e mezzo, e senza barare.”
(da Portale Numismatico dello Stato)

 Da queste tipologie di giochi deriva sicuramente la Tabula: si tratta di una evoluzione tarda del ludus duodecim scriptorum in cui venne rimossa la fila centrale di caselle e rimasero sulla tavola solo le due righe laterali. In questo modo divenne veramente simile alla tavola del Backgammon. Anche in questo gioco oltre alla tavola vi erano le pedine e tre dadi. Una delle fonti più antiche è l’epigramma dello storico bizantino Agazia in cui è descritta una partita giocata dall'imperatore romano d'Oriente Zenone.

 

Illustrazione del XIII secolo raffigurante giocatori di tabula (da Unbekannter Schreiber, Kloster Bendikbeuren)

 Questa tipologia di gioco provvisto di una tavola raggiunse anche l’Asia: nel IX secolo era chiamato Nard.

In Europa durante le Crociate, i soldati conobbero questo gioco dagli Arabi denominato takht-e nard, o semplicemente Nard.

Durante il medioevo la Chiesa cercò invano di bandire questi giochi poiché erano ritenuti d’azzardo, ma essi si diffusero sempre più con varianti e nomi diversi: Tavola Reale in Italia, Tablas Reales in Spagna, Tavli in Grecia, Tavla in Turchia, Tric Trac in Francia e in Italia, Backgammon o Tables in Gran Bretagna, Puff in Germania, Vrhcaby in Cecoslovacchia, Swan-liu in Cina, Golaka-Krida in India.

Questi giochi seppure con delle differenze presentano caratteristiche molto simili.

Fu solo nel 1743 Edmond Hoyle pubblicò un breve trattato per codificare le regole del backgammon, che è sicuramente uno dei giochi utilizzati ancora oggi che ricorda maggiormente quelli del passato.

Voi li conoscevate? Avete mai giocato a backgammon?





Dic 07

Dalla preistoria fino ai giorni d’oggi l’ocra ha avuto un carattere multifunzionale, assumendo molte volte un valore simbolico-magico. 

Fig. 1 - Ocra rossa (da http://www.kremer-pigmente.com). 

 

Nel Paleolitico l’utilizzo dell’ocra non era univoco: venne impiegata sia come colore nelle pitture rupestri sia nell’ambito dei rituali funerari.
Nel rituale funerario l’ocra poteva essere utilizzata seguendo due differenti tecniche, o ricoprendo tutto il corpo del defunto con uno strato spesso fino a 5 cm o aspettando che il defunto si scheletrizzasse per poi spargere l’ocra sulle ossa. Sembrerebbe che il colore rosso, in questi contesti, potesse simboleggiare la rinascita /fertilità. 
Questo rituale accomuna i luoghi di deposizione del Paleo-Mesolitico siciliano e coeve sepolture presenti in tutta Europa.

In Sicilia tracce di ocra sono state rinvenute nella Grotta d’Oriente nel Trapanese e nella grotta di S. Teodoro, nel Messinese, le cui sepolture sono datate al paleolitico. Appartiene invece al periodo del rame la necropoli di Piano Vento (AG). 

Fig.2 Necropoli di Piano Vento, Agrigento. Tracce di ocra su un cranio, tomba 10

 

A proposito di grotte, queste furono anche luoghi in cui le comunità preistoriche espressero una complessità di pensiero (che evidentemente era già una caratteristica umana allora) attraverso raffigurazioni rupestri simboliche: figure di animali (come cervi, buoi, cavalli e tori) e uomini. Le pitture rupestri conosciute oggi in Sicilia si trovano nella parte nord-occidentale dell’isola, tra Palermo e Trapani. In alcune di esse è stata rinvenuta l’ocra usata come pigmento colorante.

Fig 3.  Riparo Cassataro, Centuripe (EN). Figure umane dipinte in ocra rossa

(http://www.siciliafotografica.it/gallery/index.php?/category/515)

 

In contesti etnografici moderni diverse tribù continuano a utilizzare l’ocra in diversi modi: come medicine o per tatuarsi il corpo.

Nel nord-ovest dall'Australia la tribù Gugadja usava un composto di foglie schiacciate miste con l’ocra, usata per coprire le ferite e quindi cauterizzarle, per ustioni o ulcere.

Non sono da sottovalutare le proprietà antibatteriche e disinfettanti conferite all’ocra rossa, tanto che numerose medicine antiche (egizia, sanscrita) e tradizionali (cinese) hanno indicato questo pigmento minerale come la cura per arrestare emorragie, curare infezioni agli occhi, febbri, vertigini, problemi allo stomaco.

Un altro uso è come colorante per il corpo. Questa pratica è ampiamente documentata, anche se è molto complicato nella documentazione archeologica scoprire l'origine di tali pratiche. Le tribù di Ndembu africani, aborigeni o anche casi di popoli non cacciatori-raccoglitori, come gli Ebrei Yemeniti, o Mari Baluch, ricorrono a questa sostanza per la decorazione del corpo. Questa pratica, che consiste in un vero e proprio rituale, sembra essere legata all’aspetto simbolico della fertilità, o per indicare lo status della persona (ad esempio come guerriero o capo tribù). 

L’ocra come si è potuto vedere non è mai stata considerata come semplice terra colorata, ma dal Paleolitico ad oggi questa “terra rossa” ha assunto una valenza simbolica ma soprattutto magica. Le venivano attribuiti, infatti, svariati poteri, come quello di trasmettere saggezza ai capi, fertilità alle donne e coraggio ai guerrieri e come una pozione magica che guarisse dai malesseri. Ma tu la useresti per il mal di testa? 

Fig. 4 le donne Masai si spalmano ogni giorno di ocra

(https://www.corriere.it/gallery/ambiente/08-2012/paint-bodies/01/fotogallery-corriere-sera_122c388c-ee08-11e1-9207-e71b224daf2a.shtml)   

 

Nov 20

Nel 1937 il direttore Ramiro Fabiani incaricò Giuseppe Bonafede di effettuare una campagna di scavo nella Grotta di San Teodoro (comune di Acquedolci, ME). 

Questa grotta era stata originariamente scoperta ed indagata nel XIX secolo ad opera del barone e paletnologo Francesco Anca di Mangalavite che rinvenne al suo interno dei resti ossei di mammiferi e alcuni manufatti litici. Da ciò scaturì il pensiero di una frequentazione costante della grotta durante l’Epigravettiano finale (14.000-10.000 anni fa). 

Nella campagna di scavo del 1937 fu rinvenuto uno scheletro quasi completo di un individuo femminile al quale è stato attribuito il nome di Thea

Fig 1. Scheletro di Thea (S1) (da www.facebook.com/museo.gemmellaro)

 

Questo ha restituito alcune importanti testimonianze: la donna era vissuta nella Sicilia paleolitica in un periodo non chiaro ma databile a 14.000-11.000 anni fa (Paleolitico superiore). Possedeva dei lineamenti molto marcati per via del volto oblungo e della mandibola accentuata, era alta 1.65m ed aveva circa una trentina d’anni.

Il teschio, elemento chiave per lo studio e la ricostruzione dello scheletro da parte degli specialisti del Museo naturalistico Gemmellaro di Palermo, è costituito da una dentatura quasi perfetta. Ciò suggerisce che Thea fosse priva di problemi masticatori e di alimentazione.

Anche l’analisi delle ossa restituì risultati positivi: queste si presentano integre e prive di logorii, quindi in vita non erano state soggette a particolari carichi di lavoro.

Dentatura ed ossa confermano che il soggetto in questione apparteneva ad un ceto elevato e che, quindi, si tratti di una sacerdotessa o una di una principessa preistorica.

Un ultimo dato riguarda anche le circostanze della sua morte avvenuta, probabilmente, per complicazioni legate al secondo parto.

In seguito a questo rinvenimento furono effettuate altre campagne di scavo fino al 1947. Al di sotto di un primo strato di terriccio sterile ed un secondo di materiale organico (avanzi di cibo, carbone e selce) furono riportati alla luce altri 6 individui, dei quali erano presenti soltanto i crani e, talvolta, pochi resti ossei (articolazioni in genere). 

Dopo ulteriori indagini si scoprì che i 6 individui, tutti adulti, fossero 4 di sesso maschile e 2 di sesso femminile. 

I 7 rinvenimenti scheletrici costituiscono dunque un unicum, poiché finora sono la prima ed esclusiva testimonianza di sepolture paleolitiche presenti in Sicilia. 
A proposito del rito di inumazione, P. Graziosi scrisse che l’interramento del cadavere avveniva all’interno di una fossa poco profonda creata nel suolo vergine della caverna o negli avvallamenti, in posizione distesa, supina o sul fianco sinistro (come nel caso di Thea). 

Le braccia correvano lungo i fianchi. I corpi potevano essere deposti insieme ad ossa animali e ciottoli e ornati da collane di denti di animali, che di fatto ne costituivano il corredo funerario. 

Una volta ultimata la fossa, al di sopra di questa veniva sparso un sottile strato di ocra.

Figura 2. Stratigrafia e rinvenimenti ossei della Grotta di San Teodoro (da http://sottolapietra.blogspot.com/)

 

A partire dal 2007 furono destinati nuovi spazi all’interno del Museo Gemmellaro per accogliere i resti provenienti dalla Grotta di San Teodoro. In particolare, all’interno di una teca di plexiglas è custodito lo scheletro di Thea, con accanto il teschio maschile (S2) rinvenuto nella stessa grotta. Nella stessa sala a grandezza naturale viene riproposta una scena di vita quotidiana che coinvolge un uomo e una donna preistorica all’interno di una grotta.

Figura 3. Riproduzione della vita in una grotta, Museo Gemmellaro (da www.facebook.com/museo.gemmellaro)

Adoperando un sistema di ricostruzione derivante dall’antropologia forense è stato possibile per un team di specialisti ricostruire il volto di Thea in alcuni passaggi:

  • Tac sui reperti ossei
  • Calco in gesso del teschio
  • Determinazione delle fasce muscolari per l’individuazione degli spessori del volto
  • Modellazione del volto con l’argilla
  • Rifiniture ulteriori e colorazione finale

Thea, definita ormai la principessa preistorica siciliana, ha avuto in questo modo il suo volto distillato in un aspetto piuttosto scimmiesco e, naturalmente, ben lontano dai moderni canoni di bellezza. Ma questo ovviamente non toglie nulla alla bravura realizzativa degli esperti ed anzi mette in luce delle comparazioni morfologiche (tra passato e presente) che tutti, studiosi e non, possono cogliere ad occhio nudo.

Fig.4 Il volto di Thea (da www.facebook.com/museo.gemmellaro)

 

Set 21

La triscele dal greco antico τρισκελής (“che ha tre gambe”), fu utilizzata simbolicamente a partire dal mondo vicino-orientale per indicare la luna, il sole o più genericamente il moto degli astri.

Nell’arte greca la rappresentazione della triscele consisteva in una figura con al centro una testa femminile o gorgòneion (dalla testa di Medusa) dalla quale si dipartivano tre gambe con i piedi rivolti nello stesso senso.

Dalla triscele deriva Trinakìa o Trinakrìa, il nome col quale i Greci designarono l’isola di Sicilia formata da tre alti promontori: Capo Peloro (Messina), Capo Passero (Portopalo) e Capo Lilibeo (Marsala).

La triscele divenne anche un importante simbolo monetale e fu utilizzata da Fliunte, Egina, Milo e Derrones tra il VI e il V secolo a.C. e poi da Ierapitna e dalla confederazione licia nel IV secolo a.C.

Sempre nel IV secolo a.C., nel periodo pre-agatocleo (317-310 a.C.), anche Siracusa coniò le prime monete con la rappresentazione della triscele con il gorgòneion al centro. Fu poi, a partire dal periodo romano, che questa si affermò come simbolo rappresentativo della Sicilia, come si evince anche dalle emissioni monetali di Agrigento e Panormo.

 

 http://siciliastoriaemito.altervista.org/wp-content/uploads/2016/08/001-syracuse-Triskeles-Triscele-su-una-moneta-siracusana-del-tempo-di-Agatocle-con-gorgon%C3%A8ion-al-centro.jpg

 

La triscele o triskell fu anche uno dei più importanti simboli celtici, nella variante spiralata: rappresentava la triplice manifestazione del Dio Unico (forza, saggezza ed amore).

 

 

A partire dal 1072, in seguito alla conquista normanna della Sicilia, la triscele fu esportata e adottata sulla bandiera dell’isola di Man. 

 

 

Nel 1282 durante il periodo della “Rivolta dei Vespri” la triscele fa la sua comparsa sulla bandiera siciliana, ma con i colori giallo e rosso invertiti: questi prendevano ispirazione dalla precedente bandiera del Regno di Sicilia e dai colori della città di Palermo, centro focale della rivolta contro gli Angioini. 

 

 https://it.wikipedia.org/wiki/File:Vespro_flag.svg

 

Solo più recentemente, nel 2000, la Regione Sicilia la riconobbe come bandiera ufficiale: i colori giallo e rosso sullo sfondo, con il giallo e le tre spighe di grano che si ricollegano alla fertilità della terra e del sole che splende sull’isola e il rosso che richiama il sangue versato dai siciliani durante i Vespri.

 

 https://it.wikipedia.org/wiki/File:Sicilian_Flag.svg

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